Il governo Conte, per ora, è salvo, ma il Movimento 5 Stelle non gode di ottima salute. L’ok alla riforma del Mes ha lasciato nuove cicatrici sulla pelle di un partito in piena crisi identitaria, decimato da abbandoni ed espulsioni. Ieri è toccato ad altri quattro deputati - Fabio Berardini, Carlo Ugo de Girolamo, Antonio Lombardo e Mara Lapia - lasciare il Gruppo per evitare di essere buttati fuori dal capo politico. I quattro fanno infatti parte di quella pattuglia di dissidenti, 13 in tutto alla Camera, che in Aula si sono schierati contro la riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Una posizione, spiegano, assolutamente in linea col programma sottoposto agli elettori nel 2018, oggi stracciato dalla dirigenza pentastellata.

«Oggi, purtroppo, rimangono le macerie di un movimento che era partito con le migliori intenzioni ma che ha annientato qualsiasi contatto con il mondo reale grazie all’assenza di una minima organizzazione sui territori», scrive su Facebook Fabio Berardini. «Ieri si è consumato il colpo di grazia: dopo aver scritto nero su bianco sul programma elettorale “Smantellamento del Mes” viene approvata una riforma ( peggiorativa) di questo istituto. È ovvio che i vertici del M5S si sono calati completamente le braghe pur di mantenere la propria poltrona», aggiunge l’ormai ex deputato cinquestelle. Che poi parla di un «clima tossico», venutosi a creare attorno ai 13 ribelli, minacciati di espulsione ed «emarginati».

Difficile immaginare adesso il futuro politico dei fuoriusciti attualmente approdati al Misto. Qualcuno di loro, come Antonio Lombardo ( che insieme a de Girolamo continuerà a sostenere Conte), sogna di poter dar vita a una componente autonoma «ecologista e progressita», riuscendo nell’impresa fallita da tutti i suoi predecessori: convogliare il dissenso grillino in un unico contenitore. Eppure i numeri farebbero ben sperare i “sognatori”, visto che il Movimento 5 Stelle da inizio legislatura ha perso ben 48 parlamentari: 31 a Montecitorio e 17 a Palazzo Madama. Nessun partito ha avuto perdite paragonabili, fatto salvo il Pd ( 17 senatori in meno) che però ha subito due scissioni: quella di Renzi e quella, minuscola, di Calenda. Per i grillini, unici alfieri indefessi del vincolo di mandato, questa fuga di eletti non può che essere considerata una nemesi politica. Anche perché i quattro appena approdati al Misto potrebbero non essere gli ultimi abbandoni. Si attendono infatti le decisioni per il resto della truppa dissidente attenzionata dai probiviri. Tra loro anche l’onorevole Andrea Colletti, già noto per aver condotto una campagna referendaria contro il taglio dei parlamentari, che nel giorno del no al Mes si è pure messo di traverso alla modifica dei decreti sicurezza salviniani. Attende di conoscere il proprio destino anche Mattia Crucioli, uno dei due senatori che hanno bocciato la riforma del Fondo salva Stati. «Mi auguro che nessuno cacci nessuno», dice il parlamentare pentastellato, «ho sinteticamente spiegato in Aula le ragioni del mio voto contrario alla risoluzione di maggioranza con cui il Presidente del Consiglio è stato autorizzato a “finalizzare” l’accordo sulla riforma che rafforza e peggiora il trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità».

Ma sono proprio le ragioni esposte da Crucioli in Aula a non andare giù ai vertici pentastellati, ancora alle prese con la fase finale, e più delicata, del congresso grillino. Da ieri mattina e fino a mezzogiorno di oggi, gli attivisti saranno chiamati a esprimersi sul documento di sintesi degli Stati Generali proposto da Vito Crimi. E nelle prossime settimane dovranno ancora scegliere se affidarsi a un capo politico o a una guida collegiale. Con Alessandro Di Battista in agguato ( molti dissidenti sono vicini all’ex deputato romano) Luigi Di Maio e compagni non possono permettersi passi falsi o mostrarsi vulnerabili davanti agli alleati. Per questo motivo i probi viri valuteranno attentamente se privarsi o meno di altri parlamentari in questa fase attraverso espulsioni. Di certo, il clima pesante in casa 5S è destinato a ripercuotersi sulla tenuta del governo. Una ragione in più per convincere Di Maio ad accelerare sul congresso e chiudere una pericolosissima disputa interna. Serve un M5S forte per un «governo forte che governa la settima potenza mondiale», dice il ministro degli Esteri. «Mi sono dimesso a gennaio di quest’anno da capo politico. È passato un anno, quindi votiamo e ripartiamo, ma non c’è più tempo». Perché a breve i grillini in Parlamento potrebbero essere davvero pochi.