Alessandro Di Battista risale in sella allo scooter e sfreccia lontano dal Palazzo, lontano dalle scomuniche via Blog, lontano dalla leadership di Luigi Di Maio. Nella prossima legislatura nessuno avrà i numeri per governare da solo e non è detto che sarà sufficiente un accordo a due per conquistare la maggioranza in Parlamento. A quel punto, un ritorno rapido alle urne sarebbe lo scenario più plausibile. Che senso avrebbe, allora, rischiare di sprecare il vincolo dei due mandati per una fugace “comparsata” parlamentare? Meglio saltare un giro, dunque, mandando avanti l’ambizioso compagno d’avventura Di Maio e lasciando a lui l’onere di intestarsi una “non vittoria” logorante. Di Battista il sognatore, Di Battista lo scrittore, Di Battista il calcolatore sa quando è il momento di occupare la scena e quando è meglio defilarsi. Lo ha già fatto in altre occasioni, mettendosi al riparo da tempeste che avrebbero offuscato il suo charme combattivo e sbarazzino.

Come nell’estate 2016, quando sulla Giunta Raggi appena insediata si abbatte il primo ciclone giudiziario: l’assessora all’Ambiente, Paola Muraro, è indagata dalla Procura di Roma per abuso d’ufficio e violazioni ambientali. Di Battista, che della scalata di Virginia Raggi è uno dei maggiori sponsor, schiva gli schizzi di fango e annuncia un lungo tour in motorino per sostenere le ragioni del No al referendum. Sveste velocemente giacca e cravatta e lascia che i riflettori vengano puntati tutti sull’altra star del Movimento: quel Luigi Di Ma- io che era stato avvisato per email da Paola Taverna dell’iscrizione nel registro degli indagati di Muraro ma non aveva capito.

E mentre il vice presidente della Camera balbetta giustificazioni, la popolarità di Dibba cresce: gira tutto il Paese a parlare di Costituzione e nessuno più ricorda le sue “biciclettate” elettorali insieme a Virginia nella città eterna. Toglie il casco solo per un istante, quando Beppe Grillo pretende che tutto il Direttorio si presenti sul palco di Nettuno per chiedere scusa ai militanti infuriati per le distrazioni capitoline. E mentre il futuro capo politico del Movimento si cosparge il capo di cenere davanti a una piazza che lo ascolta con freddezza, Di Battista viene accolto con un tifo da stadio, parla per venti minuti e offusca tutti i presenti, Grillo compreso. Ancora su Raggi non è piom bato il ciclone Marra, che metterà in discussione ulteriormente la leadership del vice presidente della Camera, ma il “Che” dei grillini ha ormai trovato un rifugio sicuro, tra la gente.

Alessandro Di Battista, forse, è il prodotto più talentuoso del vivaio della Casaleggio associati. Ha imparato in fretta, grazie alle lezioni di comunicazione a Milano, a stare davanti a una telecamera e sorridere sempre al momento opportuno. Anche se, come tutti i suoi colleghi, non si confronta mai in contraddittorio con un avversario politico, la sua oratoria è buona e sa toccare i tasti giusti di un elettorato allo sbando che si riconosce più nei jeans spensierati del deputato romano che nell’inamidato completo blu del collega di Pomigliano D’Arco.

Dibba sa muoversi tra la lotta e il governo senza dare nell’occhio: un giorno a occupare con veemenza i banchi della maggioranza, l’altro a mediare per una legge elettorale che danneggi il meno possibile il Movimento. Di Maio, invece, complice il suo ruolo istituzionale, risulta troppo ingessato. E quando si espone incorre troppo spesso in gaffe madornali. Lasciando da parte la grammatica, la storia e la geografia ci sono degli strafalcioni politici che recentemente hanno fatto infuriare lo staff pentastellato che sembra aver perso la fiducia iniziale nei confronti del capo politico.

A Grillo e Casaleggio non è piaciuta ad esempio la sfida impulsiva lanciata a Matteo Renzi, con tanto di fuga finale, che ha messo a repentaglio la credibilità del candidato premier grillino. Come non è stato gradito il modo in cui Di Maio si è sfilato da un analogo confronto con Maria Elena Boschi sulle banche. Né la visita negli Stati Uniti ha entusiasmato il vertice M5s, con tutte quelle aperture esplicite filo Nato.

Per questo, la non candidatura di Di Battista potrebbe essere stata sapientemente concordata con lo Staff: preservare il leader più popolare del Movimento su cui puntare per il futuro. Perché, come dice Dibba, «avevo detto già pubblicamente che qualora si fosse arrivati a fine legislatura non mi sarei, per adesso, ricandidato». Già, per adesso.