Un traguardo che, per una volta, consente a Giorgia Meloni di rivendicare non solo la solidità della propria maggioranza, ma anche un posto nella storia repubblicana. Con 1.025 giorni di vita, l’esecutivo da lei guidato ha superato quello di Matteo Renzi e si è issato al quarto posto nella classifica dei governi più longevi, dietro solo al Craxi I e ai due primati di Silvio Berlusconi. «Un motivo in più per continuare a lavorare con serietà e determinazione, ripagando la fiducia degli italiani», ha scritto la premier su Instagram, con tanto di foto e una frase che, letta tra le righe, suona come un avviso: non ci saranno pause, né passi indietro, fino all’ultimo giorno. Il messaggio è chiaro: stabilità, continuità e nessuna tentazione di fine anticipata o rimpasti.

Sul fronte interno, Meloni ha rispolverato l’elmetto della campagna elettorale. Dopo lo scontro frontale con i magistrati sul caso Almasri, ieri è toccato a Elly Schlein finire nel mirino: «Vergognoso», ha accusato la presidente del Consiglio, «che, pur di attaccare il Governo, certa opposizione diffonda notizie false, danneggiando l’immagine dell’Italia». Il riferimento è alle dichiarazioni della leader dem sul presunto calo del turismo e sulle spiagge vuote, smentite – secondo Meloni – dai dati ufficiali del Viminale che certificano arrivi in crescita e milioni di visitatori nelle strutture ricettive. «Alle mistificazioni e alle falsità costruite a tavolino rispondono i numeri e la verità», ha aggiunto, segnando un altro capitolo della sua offensiva comunicativa estiva.

Sul fronte internazionale, la premier appare oggi ben diversa da quella che, nei primi mesi di governo, si muoveva in un equilibrio precario tra linea atlantista e velleità di autonomia. Le ultime settimane l’hanno vista protagonista di un riavvicinamento netto alla Ue. Oggi parteciperà alla videoconferenza tra Donald Trump e i leader europei, in vista del vertice di Ferragosto in Alaska tra il tycoon e lo zar Putin. Un appuntamento che si inserisce in una strategia diplomatica più ampia: telefonate al presidente palestinese Abu Mazen e al principe saudita Mohamed bin Salman, prese di posizione – affidate ai ministri Crosetto e Tajani – contro l’idea di Benjamin Netanyahu di occupare interamente Gaza, e la totale sintonia con le capitali arabe sul principio dei “due Stati” come unica via per una pace duratura. Nel colloquio con Bin Salman, Meloni ha ribadito la necessità che Hamas rilasci immediatamente gli ostaggi e rinunci a qualsiasi ruolo futuro nella Striscia.

E qui, puntuale come un temporale a pasquetta, arriva Matteo Salvini. Fiutato l’allontanamento della premier dalle posizioni più filoisraeliane, il leader della Lega si è subito proposto come interlocutore privilegiato di Tel Aviv e, di riflesso, della Casa Bianca sul dossier mediorientale.

Alla Versiliana, con un occhio alla platea e l’altro alle prime file del governo, ha ribadito il “no” a uno Stato palestinese governato da Hamas, ha difeso Netanyahu e la democrazia israeliana, e non ha perso l’occasione per allungare il tiro sull’Europa di Ursula von der Leyen, «che svende le spiagge e cambia le caldaie».

Non pago, Salvini ha aperto altri due fronti. Sul conflitto in Ucraina, ha accusato «gran parte della stampa italiana» di tifare per la guerra e ha bollato come «frustrante» l’irrilevanza dell’Europa nei negoziati: «Conta meno di zero», ha sentenziato, legando l’impotenza di Bruxelles alla permanenza di von der Leyen alla guida della Commissione.

Sul piano interno, ha rilanciato il contenzioso con Meloni sulle Regionali, in particolare sul nodo Veneto: «Squadra che vince non si cambia», ha detto in difesa del governatore Luca Zaia, avallando l’ipotesi di una lista personale del presidente uscente. Una prospettiva che per Palazzo Chigi è fumo negli occhi e che rischia di incendiare il prossimo vertice di maggioranza. Come se non bastasse, Salvini ha trovato il tempo per una nuova incursione securitaria: a Milano, dopo la morte di una donna travolta da un’auto pirata guidata – secondo le cronache – da minorenni rom, ha invocato lo sgombero e la demolizione del campo da cui proverrebbero, «pseudo- genitori» da arrestare e patria potestà da revocare. Un intervento che ha occupato le prime pagine, rimescolando la cronaca nera con la propaganda elettorale.

Così, mentre Meloni prova a capitalizzare un momento politicamente favorevole, tra primati di durata, sondaggi stabili e relazioni internazionali in ripresa, il vicepremier leghista torna a vestire i panni del guastafeste seriale. Con un’agenda che va da Gaza al Veneto, passando per Bruxelles e i campi rom, e una strategia che pare sempre la stessa: spostare il baricentro del governo verso le sue battaglie, o almeno costringere la premier a ballare su un terreno che non è il suo. Un canovaccio già visto, s'intende, che presuppone una ricomposizione nel segno di un compromesso sulle candidature e magari su qualche nomina di paragoverno. Per la premier, finora, va detto che non è stato finora necessario piegare la propria rotta per tenere a bordo un alleato che, ogni volta che fiuta il vento, preferisce alzare tutte le vele verso il Carroccio.