PHOTO
La premier Giorgia Meloni e il vicepremier Antonio Tajani
Pugno di ferro in guanto di velluto. Nella riunione del Cdm di lunedì, lo sparo d'inizio della corsa verso la legge di bilancio, la premier ha usato toni delicati e molto diplomatici. Pur essendo la prima riunione del governo dopo la pausa estiva, dunque con la manovra incombente, ha chiesto che non se ne discutesse proprio per evitare che emergessero subito dissidi e dissensi tra le forze di maggioranza.
Ma dietro l’accortezza diplomatica la sostanza del suo discorso ai ministri è stata invece ferrigna. Si rivolgeva a tutti i ministri, perché tutti hanno già pronta la loro lista di richieste ma guardava soprattutto ai suoi due vicepremier, Salvini e Tajani, perché politicamente il problema principale sono loro.
La premier ha sposato senza alcuna distinzione, nemmeno minima, la linea austera del ministro dell'Economia: «Piedi piantati per terra», risorse «scarse» da usarsi «con la massima attenzione». Sin qui nulla di particolarmente nuovo anche se la conferma definitiva che la manovra sarà austera quanto quella dell'anno scorso se non ancora di più non è cosa secondaria.
Però Giorgia Meloni è andata molto oltre quando ha chiarito che il risparmio da parte di ogni dicastero, l'immancabile «spending review», è certamente un fatto positivo in sé ma non è quella la logica a cui un governo «politico» può affidarsi. Un governo politico non taglia sulla base solo di ragionamenti ragionieristici, ovunque sia possibile pur di far cassa. Al contrario usa le forbici secondo una logica di strategia politica. O per dirla con le sue stesse parole, sottrae risorse dalle misure che non corrispondono alla sua visione politica e le sposta sulle proprie priorità appunto politiche. Priorità che la presidente non manca di ricordare: sostegno alla famiglia, lotta contro la denatalità, sostegno alle fasce deboli della popolazione. Il sostegno in questione può voler dire moltissime cose ma per la premier la traduzione è invece una sola: taglio al cuneo fiscale.
È un de profundis per il Superbonus, che la premier definisce «una tragedia contabile» e «la più grande truffa contro lo Stato», come per ogni velleità di resuscitare anche solo in parte il rdc. Ma è soprattutto una barriera invalicabile contro ogni tentazione di assalto alla diligenza e contro i tentativi, che ci saranno comunque, di allargare i cordoni della borsa. Non sembra che le pensioni figurino in questo orizzonte: né per quanto riguarda l'età pensionabile, cavallo di battaglia della Lega, né per quanto riguarda un aumento robusto, da 600 a 700 euro, delle pensioni minime, vessillo di Forza Italia. Di certo sono esclusi interventi sulle accise, che la premier considera un favore ai ricchi, secondo una logica a dir poco bizzarra, e dunque di segno opposto rispetto alla sua bussola politica.
Le richieste arriveranno comunque. Tajani non molla sull'aumento delle pensioni minime e Giorgetti gli ha aperto uno spiraglio, se non sul versante delle uscite, almeno su quello delle entrate. Non esclude infatti il ricorso alle privatizzazioni, indicate proprio da leader di Fi come possibile copertura per la manovra. Salvini insisterà con l'età pensionabile e con le accise. Sulla base della linea in realtà molto rigida assunta ieri dalla premier e dal ministro dell'Economia non otterranno quasi niente e anzi è probabile che, magari in modo discreto, la manovra si riveli per la popolazione esosa.
Giorgetti studia la possibilità di ripetere la mossa dell'anno scorso, bloccando in parte l'indicizzazione delle pensioni. Il suo viceministro Leo punta a falcidiare le detrazioni fiscali. Tra le voci “politicamente” urgenti è scomparsa la Sanità, che pure è in ginocchio, e non si parla di scuola. Insomma sarà una manovra lacrime e sangue, anche se verrà smerciata come se fosse di segno opposto.
Il ministro dell'Economia, senza sbottonarsi sulla portata della manovra, ha detto chiaramente che dipenderà in buona parte dal quadro europeo, cioè dall'accordo o meno sul nuovo patto di stabilità entro l'anno, che a lui pare improbabile. In realtà inciderebbe sulla manovra italiana anche la sostanza di quell'accordo, se cioè permetterà di escludere alcuni investimenti strategici dalle spese, e, se non si troverà l'intesa entro l'anno, dal rientro in vigore o meno delle vecchie regole. Ma nel complesso appare molto improbabile che quella trattativa migliori la situazione della legge di bilancio italiana. In compenso è facile che la peggiori.