Con poco chiasso e senza che nessuno ne colga in pieno la portata, si potrebbe star verificando nel sistema italiano una trasformazione quasi rivoluzionaria: pur continuando a condizionarlo, Mediaset non è più l'asse intorno al quale è costretta a ruotare la politica. Se questo processo verrà portato a termine, come è probabilmente inevitabile, si chiuderà una fase lunghissima, durata esattamente trent'anni, che ha modificato profondamente gli equilibri reali del sistema italiano.

Nel 1993 Finivest, l'azienda del Cavalier Silvio Berlusconi che aveva dominato il decennio precedente, rovesciato come un guanto la tv, modificato gusti e mentalità degli spettatori, condizionato le scelte politiche di svariati governi grazie alla protezione di Bettino Craxi, edificato intorno a sé un impero industriale era nei guai. Guai economici. Guai politici. L'uscita di scena dell'alto protettore socialista la lasciava sguarnita e indifesa in una fase delicatissima.

Il Pds, erede del Pci, aveva appena sferrato un attacco micidiale con la proposta di legge firmata dall'indipendente Luigi Pintor ma sponsorizzata dal signore dei media a Botteghe Oscure Walter Veltroni contro le interruzioni pubblicitarie. La campagna oggi dimenticata ma allora martellante: «Non si interrompe una emozione» si ammantava di alti ideali culturali ma il portato era una pesantissima mazzata economica che avrebbe messo in ginocchio l'intero regno aziendale di Silvio Berlusconi. Il quale aveva tutti i motivi per temere l'arrivo al governo di un partito che non nascondeva la sua ostilità. La “discesa in campo” fu di fatto un passo obbligato. Se non fosse riuscito a imporsi come leader politico di prima grandezza Berlusconi avrebbe rischiato di perdere tutto come imprenditore e capitano d'industria.

La vittoria elettorale del marzo 1994 cambiò tutto per tre decenni. Poco importa che il primo governo Berlusconi sia rimasto in carica solo pochi mesi. Come leader di una potente opposizione il Cavaliere esercitava lo stesso potere di condizionamento anche senza occupare palazzo Chigi. Forse anzi dal punto di vista dell'azienda la leadership dell'opposizione era persino più produttiva. Questo almeno argomentò in aula l'ex presidente della Camera Luciano Violante qualche anno dopo, ricordando al leader di Forza Italia che mai prima le sue aziende avevano conosciuto un periodo tanto florido quanto negli anni dei governi ulivisti.

Chiunque abbia seguito la cronaca politica nella Seconda Repubblica si è trovato innumerevoli volte a spiare le esitazioni del politico più potente d'Italia, spesso costretto a scegliere tra ciò che gli suggeriva il ruolo politico e la difesa delle sue aziende. Suspence per finta: alla fine Berlusconi ha sempre scelto la strada più vantaggiosa per l'azienda. Le persone che contavano davvero nella destra italiana, quelle alle quali il gran capo prestava ascolto non erano i leader politici ma i dirigenti Mediaset: l'eterno Confalonieri, il solito Letta, Adriano Galliani, da un certo momento in poi la figlia Marina. Era questa la vera enorme anomalia del sistema italiano: scelte politiche che venivano fatte, tanto nelle fasi di governo quanto in quelle d'opposizione, adoperando come bussola la convenienza di un'azienda, cioè di un qualcosa che nelle scelte politiche avrebbe dovuto avere un ruolo limitato e invece era arrivata a essere quasi una istituzione, informale ma potentissima.

Nell'ultimo decennio questo ruolo si era appannato, con il declino del potere di Berlusconi che era però diminuito senza mai scomparire del tutto. Con la sua leadership tutti, in un modo o nell'altro, dovevano fare i conti. Anche Giorgia Meloni e palesemente ne era molto infastidita. Ma Berlusconi aveva i voti sufficienti per far cadere il suo governo, una sponda, il Terzo Polo, che sembrava profilarsi, il nome e il carisma necessari per provare a sopravvivere anche qualora avesse messo in crisi il governo di destra. Senza di lui non ci sono più due di queste tre armi, che permettevano a Mediaset, pur con una emanazione politica ormai minoritaria, di rimanere intoccabile.

Nessuno ha il carisma di Berlusconi, nessuno in Fi vanta neppure l'ombra della sua presa su una parte di elettorato. Di conseguenza anche il primo strumento di pressione finisce spuntato: Fi può far cadere il governo ma in quel caso Meloni non esiterebbe a imporre elezioni nelle quali il partito azzurro scomparirebbe. A eliminare l'ultima arma ci hanno pensato i leader del Terzo Polo, Renzi e Calenda, troppo narcisisti per costruire un polo che, se fossero riusciti a edificarlo, avrebbe permesso a Fi di giocare su due tavoli.

La partita della premier passa ora per staccare almeno in parte il partito dall'azienda per farne una forza fiancheggiatrice obbediente, mantenendo con Mediaset, dai cui fondi Fi dipende, un rapporto amichevole e certo non ostile. Ma la centralità del biscione nella politica italiana è arrivata al capolinea.