Applaudito come un condottiero romano di ritorno dalla campagna di Gallia, Giuseppe Conte recita prima di fronte al Senato, poi alla Camera, il più solenne atto di fede e peana all'Unione europea nel corso dei suoi due anni di permanenza, con maggioranze opposte, a palazzo Chigi. Non è solo un espediente per elogiare se stesso e magnificare ulteriormente i risultati ottenuti nel lungo e combattuto vertice di Bruxelles. C'è la piena consapevolezza di dover modificare profondamente la fisionomia della sua maggioranza, secondo quello che era stato del resto il preciso “consiglio” del capo dello Stato.

Questa maggioranza era in realtà nata sotto il segno dell'Europa. La sua sola ragion d'essere era recuperare i rapporti con Bruxelles, Berlino e Parigi messi a rischio nel corso della breve esperienza gialloverde. Lo stesso Conte aveva saputo accreditarsi a Bruxelles, e così garantirsi di sopravvivere al primo governo da lui stesso presieduto, spostando con un audace colpo di mano il M5S dalle abituali posizioni euroscettiche all'ingresso a vele spiegate, nonché determinante, a favore della presidenza della Commissione assegnata a Ursula von der Leyen. Ora però c'è bisogno di qualcosa di più. Con l'asse franco- tedesco impegnato nella missione di rimodellare l'Europa, il governo italiano, in sé fragilissimo, deve proporsi come sponda italiana di quell'asse e alleato prezioso in quella campagna per il rinnovamento dell'Unione europea. Essersi lasciati alle spalle l'euroscetticismo non basta più. Ora il governo Conte deve fare il salto finale verso una forma di europeismo totale, senza più incrinature. Solo così un governo debole può rinsaldarsi, una maggioranza raccogliticcia può diventare coalizione.

La posta in gioco è anche più alta. L'occasione per dare il colpo fatale alla destra sovranista è questo. Conte è tornato da Bruxelles con una valigia piena di euro, anche se in concreto quei soldi non si vedranno prima di una decina di mesi. Se al governo ci fossero state le forze anti- europee, l'Unione non avrebbe mosso un dito e la crisi Covid non avrebbe potuto neppure essere affrontata. Rinsaldare i ranghi europeisti, nel momento in cui il premier gode di una vasta popolarità personale regalatagli dall'emergenza Covid e può sbandierare come successo dell'Italia, del resto a buon diritto, il Recovery Fund, significa anche infliggere un colpo forse decisivo alla destra sovranista.

Infine proprio sotto il segno dell'europeismo è possibile attrarre Forza Italia se non nella maggioranza, almeno in una postazione limitrofa: un interlocutore privilegiato accomunato alla maggioranza dalla comune fede nell'Europa. Anche questo è stato un consiglio preciso di Sergio Mattarella e Conte non ha esitato a seguirlo con degli inusuali “ringraziamenti” all'opposizione che erano in realtà rivolti, in assoluta evidenza, solo al partito azzurro. L'ostacolo sono le sacche di resistenza che permangono nel M5S. Né nei gruppi parlamentari né nella base il processo di “europeizzazione” è stato completato, come il braccio di ferro sul Mes prova. Anche sul dialogo con Fi è il Movimento a resistere. Lo ha dimostrato ieri, per l'ennesima volta, usando una tattica ormai abituale. Alle aperture del premier ha fatto seguito un intervento del capogruppo al Senato dei 5S Perilli il cui obiettivo era proprio bruciare ogni ponte con Arcore.

Sinora Conte si è destreggiato tra la posizione radicalmente europeista del Pd e quella molto più ambigua e sfumata di un M5S che non vuole estirpare ogni legame con le proprie origini. Il nuovo quadro determinato dalla crisi Covid prima e dalla sterzata europea poi non permetterà a lungo di proseguire con quell'esercizio di equilibrismo. Nel giro di un paio di mesi al massimo, Conte dovrà avere ragione delle resistenze interne al M5S, anche a costo di arrivare a una “Notte dei lunghi coltelli” con l'anima più radicale del Movimento. L'occasione, alla fine, sarà probabilmente proprio il Mes. Non a caso ieri Iv e Pd hanno martellato, nel dibattito parlamentare, sulla necessità di affrontare il problema solo “pensando a ciò che più conviene al Paese”, che è una formula indiretta ma chiara per invocare l'immediato accesso al prestito del Mes, essendo quei 37 mld necessari per fronteggiare i problemi di spesa corrente di qui all'arrivo del Recovery Fund. Sarà dunque probabilmente proprio sul Mes che, ora o in ottobre, si consumerà la resa dei conti con gli euroscettici dei 5S.