La vigilia era stata ruggente. L'annunciato processo al ministro italiano, fissata per la precedente riunione dell'Eurogruppo con la mancata ratifica della riforma del Mes come capo d'accusa, si era dovuto svolgere in contumacia. Per oggettiva causa di forza maggiore, la bocciatura dello scostamento di bilancio, l'imputato era assente. Lunedì scorso però non c'erano alibi di sorta e nella nuova riunione dell'Eurogruppo i ministri della Finanze erano decisi a mettere il collega italiano con le spalle al muro.

Ci hanno provato. Non ci sono riusciti. Il ministro Giorgetti è rimasto sul vaghissimo. Ha aperto spiragli apparenti ma non sostanziali. Ha rinviato, ha promesso di cercare una «soluzione politica», via d'uscita sempreverde. Non ha preso impegni di sorta. Anche i più ottimisti hanno capito al volo che l'Italia non è affatto vicina ad arrendersi e concedere il proprio vincolante voto alla riforma del Mes che dovrebbe essere licenziata entro l'anno. Lo stesso ministro Tajani, che nella squadra di governo è il più europeista di tutti e il più affidabile per l'Europa, slitta su posizioni vicine a quella della Lega e di FdI: prima l'Unione bancaria poi, semmai, il Mes. La stessa Europa sembra quasi rassegnata: Roma non può essere costretta. Basta pensare a quale sarebbe stata la reazione di Bruxelles solo pochi anni fa, per non parlare della fase aurea del rigore, a maggior ragione con strumenti di pressione poderosi come la necessità dell'Italia di riscrivere il Pnrr o la ridefinizione dei parametri, per cogliere la portata dello scarto. Di fatto il braccio di ferro sul Mes rivela quanto sia scemato il potere della Commissione e di conseguenza la sua determinazione.

Non si tratta di uno scenario solo internazionale. All'interno dei confini italiani la situazione è identica. Quando si è trovato sulla scrivania il decreto Cutro il capo dello Stato non ha apprezzato affatto. Le fonti del Quirinale, in via rigorosamente informale, si sono affrettate a far sapere che scelte di quel genere non potevano che essere in contrasto con l'impostazione fondata sul solidarismo cattolico del presidente. Aggiungevano però che lo stesso presidente non si sarebbe opposto e non avrebbe creato problemi di sorta. La scelta del Colle restava e resta quella di evitare quanto più possibile uno scontro con il governo Meloni.

A orientare l'attitudine di Bruxelles e del Quirinale è lo stesso elemento attivo: la guerra e il posizionamento che Giorgia Meloni, forse quasi per caso, più probabilmente sulla base di un calcolo lucido e preciso, ha scelto sulla punta estrema dell'atlantismo. Le conseguenze e la rendita di posizione garantite al governo italiano da quella collocazione vanno molto oltre lo “sdoganamento” a livello europeo e internazionale di un governo che, in circostanze diverse, sarebbe stato circondato e forse soffocato da sospetto, diffidenza e ostilità.

Alla vigilia delle elezioni europee quella rendita di posizione si moltiplica. La guerra e la prevalenza di conseguenza riconquistata fulmineamente dalla Nato sono un terremoto che sposta gli equilibri consolidati nell'Unione. Si è così diffusa una sorta di panico per elezioni che potrebbero ridisegnare profondamente la mappa Ue e che indebolisce ulteriormente Bruxelles a tutto vantaggio delle forze di destra emergenti, a partire proprio dall'Italia e dalla Polonia.

Per la premier italiana la guerra è una sorta di assicurazione sulla vita politica ma non è affatto detto che quell'assicurazione scada quando le armi taceranno, come se si trattasse di una parentesi chiusa la quale tutto tornerà come prima. Molto più dello stesso Covid la crisi in corso ridisegnerà l'Europa ed è proprio su questo che ha scommesso Meloni, una leader che ieri era più che marginale in Europa e domani potrebbe rivestire panni da protagonista su quello stesso palcoscenico.

In fondo è questo oggi il vero vicolo cieco nel quale si trova la segretaria del Pd, prigioniera di una scelta iperatlantista del suo predecessore che non può rinnegare perché il partito esploderebbe ma anche in questo momento la lascia disarmata di fronte all'offensiva europea della sua principale rivale.