Nonostante alcune figuracce effettivamente gravi, Giorgia Meloni esce più forte dalla manovra. Sul fronte dell'opposizione, senza aver dovuto faticare molto per centrare l'obiettivo, a essere premiato è Giuseppe Conte. La premier sconta un limite la cui gravità è emersa in pieno nella giostra impazzita degli ultimi giorni: la mancanza di un gruppo dirigente e dunque anche di uno staff in grado di tenere salda la barra e a bada i colpi di testa degli alleati. Non era un limite al quale si potesse ovviare con un colpo di bacchetta magica. L'errore (grave) della presidente è insistere nel negarne l'esistenza invece di porvi tempestivamente rimedio.

Ma per il resto la manovra è una vittoria. In Europa c'è una sostanziale promozione dovuta alla capacità della nuova arrivata di imporre una linea politica opposta a quella promessa in campagna elettorale, soprattutto dagli alleati ma anche dal suo stesso partito, senza pagare dazio. Alla resa dei conti Fi e la Lega di Salvini, che è cosa ormai diversa da quella di Giorgetti, hanno sempre piegato la testa.

Nel rapporto con l'opposizione, un percorso che un po' per la oggettiva fretta e un po' per l'imperizia dei navigatori ha comportato forzature anche superiori a quelle del passato e ha bruciato solo i ponti che erano già in fiamme, quelli con i 5S ovviamente ma anche quelli con un Pd disinteressato al dialogo. Reggono invece, nonostante le critiche acuminate di Renzi e Calenda, quelli con il Terzo Polo. Ai centristi, salvo particolari, la manovra va benone. L'accusa principale di Calenda al governo è quella di aver fatto troppo poco, limitandosi a elargire mance. Non è una di quelle critiche che siglano rotture irreparabili. È vero che l'idea di sfruttare la manovra per avvicinare le posizioni, con il voto incrociato della maggioranza e dei centristi su alcuni emendamenti dell'una e degli altri, è sfumata. Fretta e caos non permettevano manovre sottili ma ci sarà tempo e nulla è compromesso.

L'avvocato Conte non ha dovuto quasi muovere un dito per ritrovarsi principale leader d'opposizione. Ci ha pensato la maggioranza, concentrando il fuoco su un reddito di cittadinanza voluto e difeso sul serio solo dai 5S. Trattandosi della solita misura che incide subito e a fondo sulla vita materiale di milioni di persone il capitale di rabbia e consenso pervenuto all'avvocato del popolo non è poca cosa. Ma ha provveduto a rinsaldare il primato di un leader che meno di un anno fa sembrava destinato all'ingrato ruolo di meteora è stato anche il Pd.

L'incapacità del Pd di scegliere un'identità e dunque una linea politica definita morde quando il partito è al governo ma anche quando si trova all'opposizione. Incapace di schierarsi in maniera risoluta da una parte o dall'altra, il partito ancora guidato da Letta si è rifugiato nelle levate di scudi giuste ma ovvie, come quella contro le strizzate d'occhio all'evasione, senza riuscire a recuperare neppure in minima parte la rappresentanza delle fasce più deboli e penalizzate.

Allo stesso tempo, però, il Pd si è attestato su una posizione molto rigida nei confronti del governo, in tutta evidenza puntando ancora su un suo rapido crollo e sul ritorno a formule di governo anomale che riaprirebbero se non le porte almeno le finestre dei palazzi del potere. Questa linea, povera e a volte priva di contenuti ma intransigente, marca uno stacco nettissimo rispetto al Terzo Polo ma spinge di fatto il Nazareno nell'area di Conte. Solo che in quei territori il Pd non è più la locomotiva, come nei progetti fioriti all'epoca del governo Conte 2. È una parte del convoglio e il guaio è doppio. Il Pd di Zingaretti avrebbe potuto piegare le corpose resistenze interna a un'alleanza strategica con il partito di Conte proprio in quanto le redini erano saldamente in mano al Nazareno. Nel nuovo equilibrio stringere di un rapporto solido con i 5S senza traumi e senza spaccature non sarebbe probabilmente possibile.

Ma Conte, che per l'ennesima volta si trova a incassare i proventi degli errori degli altri, deve sciogliere due nodi quasi indistricabili per affermarsi davvero come principale leader d'opposizione. Uno di questi problemi si è evidenziato proprio nell'opposizione alla manovra. I 5S continuano a non essere in grado di mobilitare il loro popolo, reale e potenziale, in carne e ossa. Con il Rdc nel mirino sarebbe stato facilissimo riempire le piazze a Napoli e mettere così sul piatto della bilancia un elemento di massima forza. Ma i 5S sono ancora confinati nel perimetro circoscritto del movimento d'opinione che esiste solo in rete, Poteva andare bene per il M5S di Grillo, non per un Movimento che si candida a ereditare la rappresentanza popolare della sinistra storica. Inoltre i 5S sono oggi il partito di Conte, ma con le regole e i dogmi sanciti da altri e la difficoltà nel trovare un candidato per il Lazio provano quanto esiziale possa rivelarsi la contraddizione. Se vuole diventare il primo leader dell'opposizione Conte deve completare prima, a tutti gli effetti, la conquista del M5S.