Dopo mesi di foschia almeno sappiamo di cosa di parla quando si dice la parola “premierato”. Chiarimento necessario dal momento che già il termine, inesistente nel resto del mondo è un'invenzione italiana e rende omaggio all'eterna passione della politica italiana per l'ambiguità. Cosa sia una Repubblica parlamentare è evidente, cosa s'intenda per Repubblica presidenziale, in tutte le sue varianti, pure. La Repubblica del premier è un animale sconosciuto e lo rimane in parte anche dopo queste prime delucidazioni.

Il premier sarà eletto direttamente però potrà essere sostituito ed è già una contraddizione in termini: che senso ha l'elezione diretta se non è vincolante? Nonostante l'elezione diretta, inoltre, dovrà chiedere la fiducia del Parlamento e per questo gli si assegna un premio di maggioranza: però se il Parlamento gli nega la fiducia per due volte si rivota, il che è come permettere al Parlamento di esprimersi però con la pistola alla tempia. Pur essendo non più un primus inter pares, come formalmente e solo formalmente ancora è, ma a tutti gli effetti il capo del governo, l'eletto non nomina e non revoca i ministri. È dunque privo del potere minimo concesso a un presidente del consiglio inteso come capo del governo, presente anche nelle proposte dell'opposizione. Il premio di maggioranza che dovrebbe garantire una fiducia della quale, con l'elezione diretta, non dovrebbe esserci alcun bisogno filerà liscio alla Camera ma non al Senato, dove l'elezione è su base regionale. Qualunque legge elettorale ispirata a questa riforma rischierà quindi di sbattere contro lo stesso muro contro il quale si sono infranti il Porcellum, che diventò tale, cioè un pasticcio, solo dopo l'intervento di Ciampi sulla legge per il Senato e poi l'Italicum.

Ma queste, si sa, son solo “tecnicalità”, come se nella costruzione di un'architettura istituzionale la “tecnica” fosse un fattore secondario. Dal punto di vista politico l'orizzonte è limpido. In effetti è così, ma nel senso che si vede a occhio nudo e con chiarezza la tempesta che si addensa all'orizzonte, che di limpido non ha invece proprio niente. Nella visione di Giorgia Meloni e di chi ha inventato questa riforma in Italia ci saranno due poteri, entrambi molto forti anche se uno rafforzato rispetto alla situazione attuale e l'altro al contrario indebolito: il presidente del Consiglio e quello della Repubblica. L'eventualità che questa specie di diarchia si risolva in scontro o più probabilmente in mediazione al ribasso ovviamente non si può escludere ma il problema grosso non sono i poteri che ci saranno bensì quello del quale la riforma vuol sancire la scomparsa: il potere legislativo, il Parlamento.

Il Quirinale, pur con limitazioni sostanziose, mantiene una funzione, un potere, un ruolo. Il Parlamento no. È chiamato a esprimere il voto di fiducia, cioè a confermare oppure smentire il verdetto popolare, ma con il condizionamento del ritorno a casa dopo aver assaporato l'elezione dopo poche settimane. È facile prevedere che l'uso già dilagante della decretazione d'urgenza e del voto di fiducia, la tagliola che ha già spogliato il Parlamento di quasi tutte le sue prerogative, verrà ulteriormente incentivato nella “Repubblica del Premier”. Il Parlamento avrà come unica possibilità di reagire un voto di sfiducia, non ripetibile perché è previsto un solo possibile cambio di premier per legislatura, che in queste condizioni non arriverà mai. La norma che impedisce i ribaltoni, cioè i cambi di maggioranza, riduce il Parlamento all'impotenza. È il colpo di grazia. Meloni del resto si è portata avanti col programma grazie al comunicato con cui due giorni fa Chigi ha annunciato al mondo il lieto evento, il travagliato parto della manovra. Non potrà essere emendata ma la presidente del Consiglio, bontà sua, ascolterà il dibattito e poi deciderà di cosa, semmai, tenere conto. Il potere legislativo ridotto a istituzione consultiva, tanto per chiarire subito come funzionerà l'Italia che la destra al governo sogna.

Per farcela dovrà vincere il referendum. Giorgia Meloni ne è consapevole, lo ha detto chiaro ai suoi ministri: «La riforma deve essere approvata in prima lettura prima delle Europee. Bisogna fare presto perché il referendum sarà inevitabile e non deve coincidere con la fine della legislatura». Quel referendum avrà un’importanza non inferiore a quello del 1946 tra monarchia e repubblica, ma in ballo non ci sarà la corona. Ci sarà il Parlamento.