«Non è il nostro candidato ideale ma certo a un nome italiano di tale rilievo sarebbe molto difficile dire di no» : quando si allude alla ( eventuale) candidatura di Mario Draghi per la presidenza della Commissione europea da palazzo Chigi fanno capire che il semaforo sarebbe verde ma senza entusiasmo. Un po' è gioco delle parti perché la premier è tassativa sull'inopportunità di disquisire sulle candidature prima che gli elettori si pronuncino ma anche perché la stessa Meloni non intende mollare l'alleata von der Leyen finché non sarà lei stessa a tirarsi indietro. Ma qualche preoccupazione c'è davvero, probabilmente. Non tanto per i problemi che Supermario presidente potrebbe creare al governo italiano, che sono largamente superati dai vantaggi che la sua impostazione “rivoluzionaria” implicherebbe ma perché il sostegno alla sua presidenza costerebbe a Giorgia due guai grossi. Il primo è all'interno del gruppo dei Conservatori: non è affatto detto che i partiti alleati degli altri Paesi sarebbero d'accordo. Il secondo, più urgente, è la ricaduta sulla maggioranza e in particolare sulla Lega. Salvini è fermamente ostile all'ex premier, Giorgetti, e con lui il partito del Nord, è collocato sulla postazione opposta e del resto si sa che è sempre stato molto vicino all'ex presidente della Bce.

Nella Lega il momento della verità si avvicina a passi da gigante. Basta scorrere l'elenco dei fronti aperti sui quali il leader è oggi impegnato per rendersi conto di quanto prossima sia la resa dei conti. Anche quando il braccio di ferro è con gli altri due partiti della maggioranza, che ormai si muovono quasi sempre all'unisono, quelle tensioni si riflettono immediatamente sugli equilibri interni del Carroccio. Il punto più nevralgico è forse l'autonomia differenziata. La premier mira a posticipare l'approvazione a dopo le Europee e può contare su un ingorgo che al Senato gioca a suo favore. Farcela, come da tabella di marcia, per il 28 aprile è improbo. Ma Calderoli punta i piedi, chiede che si vada avanti anche nel ponte del 25 aprile, almeno il sabato e la domenica. Ma la sensazione che Salvini sia, o almeno fosse pronto ad accettare lo slittamento dei tempi è uno degli elementi che lo hanno reso ancora più inviso agli occhi dei nostalgici della vecchia Lega Nord.

Il Ponte è ulteriore motivo di discordia. A criticare le debolezze del faraonico progetto è stata per prima Fi, ormai impegnata in un testa a testa al fotofinish per aggiudicarsi il posto di “junior partner”, in soldini il secondo partito della coalizione. FdI si è accodata. Ieri Salvini ha respinto le critiche e confermato la decisione di andare avanti per iniziare i lavori in estate. Ma il Ponte è la sua partita, non quella del partito del Nord. Il manifesto elettorale per le elezioni europee reso noto ieri è chiaro: «Più Italia, meno Europa». Non è lo slogan adatto a ricostruire i ponti col Nord. Casomai è l'opposto. Il leghismo pre- Salvini non è in realtà né europeista né anti- europeista. È pragmatico e guarda solo agli interessi dei ceti produttivi delle regioni del Nord. Ai quali non piace affatto l'idea di essere tagliati fuori di nuovo, come negli ultimi cinque anni, dalle scelte concrete che riguardano le loro aree prese a Strasburgo e Bruxelles. La convenzione giornalistica parla di tensione e quasi scontro aperto tra la visione nazionale di Salvini, confermata dal manifesto in questione, e quella locale del vecchio leghismo. In realtà c'è anche di più: il dna stesso della Lega, il bivio tra insistere nel trasformarlo in partito d'opinione, dunque compiutamente di destra e competitivo su questo piano con FdI, o riportarlo alle origini, cioè al partito- rappresentanza di interessi.

Quanto quella linea sia divisiva all'interno del Carroccio lo prova l'indisciplina del gruppo alla Camera. Ieri metà dei deputati leghisti, capogruppo Molinari incluso, hanno votato, nonostante l'indicazione opposta del governo, a favore dell'odg del Pd che mirava a contrastare l'emendamento anti- abortista di FdI approvato un paio di giorni fa, quello sulla presenza nei consultori delle associazioni pro- life. Infine il caso Vannacci: il generale forse porterà voti, ma certo è agli antipodi rispetto all'orizzonte dell'area leghista che vuole riportare il Carroccio alle radici e alla rappresentanza del Nord.

La Lega, insomma, è una santa Barbara. Un'entrata in campo ufficiale di Mario Draghi potrebbe essere la scintilla destinata a farla esplodere perché anche un dirigente disciplinato e rigido come Giorgetti difficilmente accetterebbe di imperniare la sua politica sul contrastare Draghi e le sue ricette. Ma un'esplosione nella Lega metterebbe a rischio la stabilità della maggioranza. Le preoccupazioni della premier si possono comprendere.