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Le circostanze, diaboliche più del Diavolo in persona, con la maiuscola che il Signore mi perdonerà, hanno sovrapposto all’appello del presidente della Repubblica, come se ne fosse stata l’eco, quello del vice presidente leghista del Consiglio Luigi Di Maio, dopo un incontro col suo omologo leghista Matteo Salvini, a ristabilire nella maggioranza, se mai fossero davvero esistite anche prima della campagna elettorale per le europee di fine maggio, condizioni di serenità, coesione e autentica collaborazione. Che sarebbero tanto più necessarie di fronte a certi problemi del Paese, di natura economica, finanziaria e sociale, che si sono ultimamente aggravati, al di là o al di sotto di certi miglioramenti millimetrici di qualche indice statistico. Basta soffermarsi sulle ultime riflessioni, anzi preoccupazioni espresse dal presidente italiano purtroppo uscente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi.
Mentre il capo dello Stato si è rivolto nel suo appello, nella calura estiva in qualche modo esorcizzata dalla cerimonia del ventaglio della stampa parlamentare, alle forze che compongono la maggioranza, invitandole peraltro a non trascinarlo nelle loro polemiche o sospetti con ipotesi di nuove e peraltro assai improbabili maggioranze innaffiate in qualche vaso del Quirinale, Di Maio si è rivolto solo e direttamente a Salvini, con cui pure aveva avuto un lungo scambio di idee, e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Ciò ha detto, il capo del movimento delle 5 stelle, come se le tensioni avessero riguardato e riguardassero solo quei due, e non anche, per esempio, il proprio partito. Ai cui senatori, secondo cronache non smentite, anzi in qualche modo confermate dal capogruppo di Palazzo Madama, era arrivato proprio da Di Maio, o dai suoi dintorni, un messaggino telefonico per chiederne l’allontanamento dall’aula mentre il presidente del Consiglio si apprestava a riferire sulle controverse, discusse e quant’altro missioni leghiste dello scorso anno a Mosca, in coincidenza con due viaggi di Salvini in veste di vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno.
Di queste missioni si è già parlato tanto, e si continuerà a parlare col solito intreccio tra cronaca politica e giudiziaria, in permanenza di una indagi- ne della Procura di Milano, sullo sfondo di un presunto tentativo di procurare un altrettanto presunto finanziamento russo alla Lega facendo la cresta su affari petroliferi poi svaniti, perché io vi riproponga ciò che già sapete.
Non so, francamente, se sia stato più singolare, più curioso, più disdicevole, come preferite, il rifiuto di Salvini di riferire direttamente lui al Senato, rispondendo alle interrogazioni, prima di esservi costretto in una discussione riproposta dal Pd con la presentazione di una mozione di sfiducia personale a lui, o il rifiuto di gran parte del gruppo grillino di Palazzo Madama di ascoltare l’informativa del presidente del Consiglio, finendo per mancargli, volenti o nolenti, anche di rispetto. E provocandone giustamente le proteste contro il capogruppo, che ha cercato di metterci una pezza aggravando in qualche modo la situazione con un attacco all’assenza, secondo lui ancora più rilevante, di Salvini, cui pure il presidente del Consiglio aveva appena confermato la “fiducia”, a parte la raccomandazione, estesa a tutti gli altri membri del governo, di essere più prudente nella scelta di collaboratori, accompagnatori e quant’altri.
Nel sottrarsi alle responsabilità di capo del suo movimento, non certamente estraneo alle tensioni vecchie e nuove della e nella maggioranza, e nel chiedere praticamente a Conte e a Salvini, o viceversa, di smetterla di litigare e farsi dispetti, diretti o indiretti, sopra o sotto traccia, Di Maio ha finito per proporsi, forse senza neppure accorgersi, non solo come mediatore ma addirittura come arbitro eventuale di questa ed altre contese.
Eppure nel famoso, tanto decantato “contratto” stipulato concordando l’anno scorso il programma e la stessa formazione del governo gialloverde “del cambiamento, è contemplata l’ipotesi di contrasti lungo la strada e anche il modo di uscirne, ricorrendo a commissari, o qualcosa di simile, di cui nessuno ha voluto o potuto poi ricordarsi, alla prova dei fatti. Non vorrei che a Di Maio fosse venuta la tentazione di sostituirsi a tutti e di assumere lui, e lui soltanto, la funzione di mediatore e, ripeto, arbitro insieme. E ciò peraltro alle prese con problemi di natura anche istituzionale, e non solo politico, in ordine ai quali la funzione arbitrale, e di istanza praticamente ultima, col potere costituzionale che ha di sciogliere le Camere in qualsiasi momento, è quella giustamente rivendicata, pur col suo solito stile sobrio, dal presidente della Repubblica nell’incontro di rito estivo con la stampa parlamentare. Che è spettatrice, bisogna riconoscerlo, di una stagione politica non singolare ma singolarissima. Dalla quale c’è solo da augurarsi che il Paese esca con i minori danni possibili.