L’ultimo grido di dolore di Giuseppe Conte è stato a Pasqua, in una intervista a Repubblica, per difendere il vice presidente della commissione parlamentare Antimafia Federico Cafiero De Rhao, da lui portato in Parlamento nelle ultime elezioni, dagli «attacchi ignobili» che avrebbe ricevuto da esponenti della maggioranza per i dossieraggi, o simili, di Pasquale Striano, il sottufficiale della Guardia di Finanza di cui si è perso il conto delle intrusioni nei sistemi informatici finite poi sui giornali. «È di tutta evidenza - ha detto l’ex presidente del Consiglio- che gli accessi abusivi alle informazioni personali sono avvenuti al di fuori della Dna negli anni della sua gestione» : quella cioè di de Raho.

Eppure è del 15 febbraio 2019, quando l’attuale parlamentare pentastellato era capo della Procura nazionale antimafia, questa valutazione scritta di De Rhao sul sottufficiale della Guardia di Finanza rivelata dal direttore della Dia Michele Carbone alla commissione parlamentare Antimafia poco prima dell’intervista di Conte: «Pasquale Striano ha evidenziato notevoli doti di riservatezza e lealtà, un’elevata ed approfondita preparazione tecnico professionale, piena disponibilità ed alto senso del dovere, instaurando ottimi rapporti interpersonali sia con i magistrati dell’ufficio che col restante personale amministrativo e delle forze di polizia». Si vedrà anche se al di fuori di questo ambito, viste le indagini ancora in corso nella Procura di Perugia, dove la vicenda è approdata per la dipendenza del sottufficiale dal magistrato Antonio Laudati operante a Roma.

Si capisce, per carità la solidarietà politica di Conte ad un magistrato ch’egli personalmente ha voluto fare arrivare alla Camera all’esaurimento della sua carriera giudiziaria, come anche per Roberto Scarpinato, reduce dalla Procura Generale della Corte d’Appello di Palermo, sull’esempio di altri

politici. Come fece, per esempio, Pier Luigi Bersani al vertice del Pd con Pietro Grasso, arrivato non solo al Senato ma direttamente alla presidenza, seconda carica dello Stato. Dove, senza avvertire disagio alcuno, egli seguì Bersani anche nell’esodo dal Pd, in rotta con Matteo Renzi.

Alla buonanima di Sandro Pertini era bastata e avanzata una scissione - una delle tante - del suo partito socialista per dimettersi dalla presidenza della Camera e guadagnarsi la conferma, a quel punto voluta e non imposta ai deputati.

Altri tempi, si dirà, anche se coperti dalla dannazione neroniana della memoria perché risalenti alla cosiddetta prima Repubblica.

Tempi con i quali certamente non vorrà confondersi il successore di Beppe Grillo alla guida di un movimento propostosi di rivoltare il Paese, e le istituzioni, come un calzino più di quanto non si fossero messi in testa di fare i magistrati di Milano con l’inchiesta enfaticamente chiamata “mani pulite” sull’abituale, generalizzato finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. Abituale, generalizzato ma colpito «con durezza senza uguali» nel caso del Psi di Bettino Craxi, secondo l’ammissione poi fatta al Quirinale da Giorgio Napolitano procurandosi anche per questo, ancora da morto, le critiche del solito Marco Travaglio ogni volta che cronache o rievocazioni gliene danno l’occasione.