Sono bastate poche frasi di Sergio Mattarella per far precipitare nel panico il formicaio della politica italiana. Non c'era alcun motivo per sperare che il presidente accettasse un secondo mandato. Aveva detto chiaramente e fatto capire in più occasioni di essere contrario a quell'escamotage. Imperterriti, i partiti hanno continuato a ragionare come se quella rete di protezione fosse già pronta. Quando Mattarella ha semplicemente confermato quanto già detto, il tappeto immaginario gli è stato sfilato da sotto i piedi costringendoli a misurarsi con una realtà che preferivano ignorare. L'elezione del prossimo capo dello Stato è un labirinto nel quale sono già smarriti.

I fattori in gioco sono molti e diversi ma, per capire la difficoltà della situazione che si è creata, bisogna partire dall'elemento più triviale ma anche più imperioso: il fattore tempo. I parlamentari non vogliono votare perché ci tengono a conservare il pregiato posto sino all'ultimo giorno utile e a lasciarlo con la pensioncina in tasca. I leader, con la sola eccezione di Giorgia Meloni, non vogliono votare perché non sono pronti, non hanno impostato alcuna strategia elettorale, non si fidano della coalizioni di cartapesta che hanno costruito, non hanno ancora deciso con quale legge elettorale votare, non vogliono correre il rischio di lasciare a un governo nemico la gestione del Pnrr e dei miliardoni europei. Dunque la prima domanda che si fanno, più urgente di ogni altra è: quale scelta allontana di più il voto?

La risposta sarebbe elementare: un presidente di unità nazionale, eletto subito da tutti o quasi, con Draghi alla guida di questo governo sino alla scadenza naturale della legislatura nel 2023. Un candidato di parte, eletto dalla destra o dalla sinistra, renderebbe infatti impossibile proseguire con questa maggioranza. Quel magico candidato non c'è e non ci sarà. Troppi interessi contrastanti e calcoli in vista delle prossime elezioni lo impediscono. Al momento, svanito il miraggio Mattarella bis, il solo nome in grado di raccogliere quel consenso unanime o quasi è quello di chi invece dovrebbe restare a palazzo Chigi, Mario Draghi. Di qui il vicolo cieco. Ma l'elezione di Draghi a presidente spalancherebbe davvero automaticamente i cancelli del voto anticipato? E la sua permanenza a palazzo Chigi blinderebbe realmente la legislatura? Le risposte a entrambe le domande sono molto meno nette e ovvie di quanto appaia. Ma per capirne le ragioni è necessaria una considerazione iniziale e preventiva. Per poter traslocare da palazzo Chigi al Quirinale, Draghi deve poter assicurare di aver portato a termine entrambi i compiti assegnatigli come mandato: il primo è la conclusione della campagna vaccinale, il secondo non è però la completa implementazione del Pnrr, compito che imporrebbe di restare a palazzo Chigi anche dopo il 2023, ma il varo delle riforme, molte delle quali dettate dalla Ue, propedeutiche e necessarie per quell'implementazione. Dunque, se restasse a palazzo Chigi lo farebbe senza più la blindatura imposta dalla necessità di incardinare, con le riforme il Pnrr, e nel vivo di una campagna elettorale che durerà un anno, quando i partiti faranno il possibile per non trovare punti di mediazione, e con una manovra pre- elettorale, quella dell'anno prossimo, da scrivere insieme. Sarebbe difficile comunque e impossibile se a eleggere il presidente fosse una parte sola. Insomma, la conferma di Draghi non è garanzia di scampato pericolo elettorale.

In compenso l'elezione di Draghi non implicherebbe automaticamente il voto. Il rischio ci sarebbe, la certezza o l'elevata probabilità no. Come presidente Draghi farebbe il possibile per evitare il ricorso alle urne. Un po' perché in linea di massima nessun presidente eletto ringrazia chi lo ha eletto mandandolo a casa. Molto perché non avrebbe alcun interesse in elezioni al buio, dall'esito incerto, senza garanzie di stabilità dopo il voto, con il pericolo di trovarsi forze antieuropee in postazioni chiave. Proverebbe ad andare avanti con un altro governo e probabilmente la stessa maggioranza, contando proprio sulla diffusa paura del voto da un lato e sul suo personale ascendente come elementi di forza. Non sarebbe una partita facile: le stesse spinte che metterebbero comunque a rischio il suo governo esisterebbero ancor più forti con un governo simile ma presieduto da una figura meno forte.

Il rebus è questo ed è irresolubile: una via certa per evitare il voto anticipato non c'è. I partiti dovranno giocare, almeno in una certa misura, al buio.