È la premier italiana, nel punto stampa alla fine del Consiglio europeo, che prova a derubricare l'allarme bellico contenuto nella prima bozza delle conclusioni, quello che aveva fatto suonare a distesa le sirene d'allarme ovunque, a mero equivoco: «È stata fatta confusione. Si parlava di protezione civile e la parola militare c'era solo perché in alcuni Paesi se ne occupano i militari». Credibilità vicina allo zero, dal momento che il Consiglio proprio di guerra e solo di guerra si è occupato. Persino la sessione finale di ieri, dedicata all'agricoltura, si è risolta nella decisione di mettere un dazio pesante sui prodotti agricoli di Russia e Bielorussia. Del resto tutti e tre i capitoli all'odg riguardavano guerre, presenti e reali oppure possibili e future.

Se si guarda al testo conclusivo del Consiglio europeo si deve concludere che una svolta decisa su Gaza c'è stata, sulle armi all'Ucraina, o meglio sull'uso dei profitti degli asset congelati russi per armare Kiev, è promessa e annunciata ma evidentemente con ancora scogli da superare, sul riarmo europeo è rinviata a dopo le elezioni di giugno. Ma se invece si abbandonano le parole calibrate per passare al significato complessivo, la svolta è già completa ed è una svolta che certifica la presenza della guerra come compagna costante, d'ora in poi, nella vita dei cittadini europei. Come minaccia e come impegno economico di sicuro. Senza escludere l'arrivo prima o poi anche della guerra combattuta vera e propria. Due anni e mezzo fa, con una commissione europea che aveva fatto dell'energia e del Green Deal il suo orizzonte eminente, profetizzare una simile sterzata avrebbe significato essere presi per pazzi.

Sul Medio Oriente lo sforzo di equilibrio è palese e massimo. La richiesta di liberare gli ostaggi è accompagnata dalla formula «senza condizioni», la denuncia del terrorismo di Hamas durissima. Ma nella sostanza l'Unione chiede con massima forza «un cessate il fuoco sostenibile», leva una voce ferma e unitaria contro la prospettiva dell'attacco su Rafah, il richiamo al rispetto dell'ordinanza della Corte internazionale di giustizia del 24 gennaio scorso è messa nero su bianco pur senza ricordare che quell'ordinanza era rivolta a Israele. Dal 27 ottobre il Conisglio non era mai riuscito a trovare una posizione unitaria su Gaza, per le resistenze dei Paesi più filoisraeliani e della Germania. Scholz si è convinto, anche perché in questo senso hanno premuto gli Usa, di Biden, accingendosi a prendere una posizione molto simile se non identica. Dunque l'auspicio espresso da Sergio Mattarella nel pranzo con Meloni e i rappresentanti del governo alla vigilia del vertice è stato, almeno in linea di principio, esaudito. La posizione unitaria della Ue su Gaza ora c'è, il pronunciamento a favore dei due Stati è indiscutibile. Resta da vedere quali effetti concreti riuscirà ad avere e le esperienze passate non autorizzano grande ottimismo, nonostante il peso enorme che dovrebbe avere lo spostamento degli Usa sulla stessa linea.

Sull'Ucraina le dichiarazioni stentoree un po' di tutti ma coronate dal presidente del Consiglio Charles Michel, «Abbiamo mandato un messaggio al Cremlino: siamo determinati», sono confermate fino a un certo punto dalle conclusioni reali del Consiglio. Le conclusioni dicono che la proposta di usare i profitti degli asset russi verrà esaminata, non escludono la possibilità di adoperarli per rifornire gli arsenali ucraini ma la timidezza del testo rivela che gli ostacoli politici restano e l'ottimismo di von der Leyen, secondo cui il primo dei tre miliardi annui che sarebbero a disposizione se la proposta fosse approvata potrebbe arrivare a Kiev in luglio, appare forzata e poco fondata. Bisognerà trattare, in particolare con Orbàn. Le reazioni dell'Ucraina, che di quelle armi avrebbe bisogno ieri e non dopodomani, del resto mostrano un palese disappunto e una evidente delusione. Sul capitolo più strategico e dunque più essenziale per l'Unione, invece, nulla di fatto. Plauso generale per il riarmo. Divisioni esacerbate sul come finanziarlo. Gli schieramenti sono quelli di sempre: i Paesi frugali e la Germania da una parte, gli altri e in particolare quelli del Sud dall'altra. Oggetto della contesa, come al solito, gli eurobond, che stavolta si chiamerebbero “Defence Bond”, essendo indirizzati agli eserciti e alla difesa militare. La trattativa è già di per sé molto difficile: tentarla alla viglia delle elezioni europee significherebbe votarla al fallimento certissimo. Se ne riparla a urne chiuse.

E tuttavia la svolta c'è già stata e c'è stata davvero. Una sterzata brusca e drastica, sul piano politico e culturale anche se non ancora su quello tecnico e operativo. Il testo del Consiglio, per quanto ci si sforzi di minimizzare e mascherare, è il parto di un Consiglio di guerra. Avverte che bisogna preparare la cittadinanza. Mette all'ordine del giorno quel che due anni fa era impensabile anche nel più distante orizzonte. Per rassicurare, o per provarci, l'alto commissario agli esteri Borrell non dice che la guerra è un'eventualità esclusa. Deve limitarsi a un molto meno sicuro «non è imminente». Neppure ministro italiano Tajani, sul cui pacifismo non ci sono dubbi, può andare oltre un poco tranquillizzante «bisogna fare tutto per evitare la guerra in Europa» ma aggiunge che «per avere la pace serve l'uso della forza». La guerra è già rientrata, dopo decenni di esilio: sotto forma di condizionamenti sull'economia e sulla distribuzione, certo non a vantaggio dei più poveri, come percezione di insicurezza e rischio con tutto quel che ciò comporta in termini di ricadute anche sugli umori politici. Da questo punto di vista il Consiglio di ieri, così modesto nelle conclusioni materiali, potrebbe rivelarsi da altri e anche più decisivi punti di vista una pietra miliare. Un punto di svolta.