Detto fuor di metafora, in Sardegna Giorgia Meloni ha sbagliato tutto e ha costruito con le sue mani un fallimento politico, non solo e non tanto numerico, che rischia in futuro di costarle molto. Per valutare la portata degli errori della premier basta mettere a paragone il risultato del centrodestra e quello del centrosinistra, al netto dei candidati. La destra stravince: dunque le condizioni per una facile affermazione della maggioranza parlamentare anche in Sardegna c’erano tutte.

La premier ha sbagliato nella scelta del candidato e quanto importante sia il particolare lo dimostrano proprio le elezioni di domenica. Alessandra Todde ha vinto con 331.007 voti. La coalizione di centrosinistra si è fermata a 290.640 crocette. Significa che la candidata, da sola ha portato in dote circa 40mila voti. La premier è stata punita per aver imposto come candidato il sindaco di Cagliari, pur consapevole di quanto scarsa fosse la sua popolarità, terz’ultimo nella classifica dei sindaci italiani più apprezzati, in nome della comune appartenenza alla “generazione Atreju” e nella convinzione che bastasse il suo mantello protettivo per convincere gli elettori. Non è bastato.

Meloni non ha sbagliato nel sacrificare Solinas, governatore uscente e trombato. In Sardegna da tempo immemorabile non un solo governatore uscente è stato rieletto e l’indice di gradimento dell’azionista sardo vincolato alla Lega era particolarmente scarso. In compenso ha commesso un errore fatale nel non cercare il sostituto mediando con Lega e Psdaz ma imponendolo d’autorità. Il voto disgiunto contro Truzzu, a una prima analisi, è stato contenuto. Il voto di lista a favore della destra sopravanza i consensi del candidato di appena 5mila voti e rotti. Non un’enormità ma sufficienti a decretare la sconfitta di Truzzu, che ha ottenuto 2.766 voti meno di Alessandra Todde.

La premier infine è incorsa in un errore fatale nella campagna elettorale e in particolare nel pirotecnico ma arrogante comizio finale. Ha dato la sensazione di una gestione tutta romana e molto personale, quasi “padronale”, della faccenda ed è probabile che ciò abbia contribuito ad alienarle una parte delle simpatie isolane. È significativo che, remando in direzione opposta, Todde abbia opposto cortese rifiuto alla proposta dei leader nazionali di chiudere loro la campagna elettorale: «Grazie ma preferiamo fare da soli». Il clamoroso exploit personale della candidata dice quanto fosse più accorta e strategicamente vincente questa strategia.

Gli errori di Giorgia e la batosta sarda avranno conseguenze molto pericolose e potenzialmente letali nella destra. Se dall’altra parte della barricata il successo rende quasi inevitabile la nascita della coalizione Pd-M5S-Avs, che una sconfitta avrebbe invece allontanato di molto e forse reso impossibile, a destra la ricaduta è opposta, una via lastricata di sospetti reciproci, rancori malcelati, rivalità crescenti.

Fratelli d’Italia pensa che a provocare la sconfitta sia stato il tradimento leghista, quel voto disgiunto che pur se non oceanico ha comunque affossato Truzzu. La Lega intravede una manovra di accerchiamento della quale l’inchiesta su Vannacci e il progetto meloniano di strappare il Veneto al Carroccio sono parte tanto essenziale quanto contundente. Quindi si prepara a riprendere la battaglia sul terzo mandato, che è come dire rinfacciando alla premier le disastrose scelte in Sardegna. Forza Italia, che è il partito della maggioranza uscito meglio dalle urne, punta l’indice su entrambi gli alleati: la Lega per la gestione Solinas negli ultimi cinque anni, Meloni per l’imposizione di un candidato deciso d’imperio e perdente.

Gli errori fanno parte della politica. Qui però il nodo è più aggrovigliato e potrebbe diventare scorsoio perché non si tratta di un errore di valutazione peregrino e quindi isolato. Gli sbagli della premier sono conseguenza diretta della sua intera impostazione e della sua visione politica. Una concezione competitiva delle alleanze, secondo la quale chi prende più voti comanda e gli alleati si adeguano. Una visione fondamentalmente verticistica, a tratti autoritaria, secondo la quale il vertice romano pilota e i territori si accodano. La tendenza a premiare e privilegiare gli esponenti del suo partito a lei più vicini e affini per storia politica e percorsi biografici, un po’ perché sono i soli di cui si fidi, un po’ per quel “vincolo degli underdog”, in concreto degli ex missini o degli ex nostalgici del Msi, che la leader di FdI ha sempre rispettato rigidamente.

Non si tratta dunque di limiti di carattere (anche se ci sono pure quelli) o di errori isolati. Si tratta di una visione politica, che trova la sua espressione definitiva nel premierato, cioè in una riforma costituzionale a sua misura, con pochissime concessioni a istanze diverse. Per questo superare i limiti che hanno portato alla batosta di domenica scorsa per lei sarà molto difficile. Forse impossibile.