Ufficialmente il vertice a Palazzo Chigi serviva a discutere di autonomia differenziata. Ma la coincidenza con la caduta dei droni in Polonia – episodio che ha fatto temere un’escalation diretta tra Russia e Occidente – ha inevitabilmente allargato il perimetro del confronto. Giorgia Meloni ha riunito i suoi due vice, Antonio Tajani e Matteo Salvini, in un momento in cui la politica interna e quella internazionale si intrecciano sempre più pericolosamente, e anche se i partecipanti alla riunione si sono affannati a sottolineare che questa si è limitata al dossier autonomia, senza nemmeno sconfinare in quello Regionali, tale affermazione è stata creduta difficilmente credibile.

A complicare il quadro ci ha pensato il generale Roberto Vannacci, eurodeputato e vicesegretario leghista, che nei giorni scorsi ha elogiato Vladimir Putin fino a dire di preferirlo a Volodymyr Zelensky, vantando i «vent’anni di benessere» garantiti dal leader del Cremlino al suo popolo. Dichiarazioni che hanno provocato uno sconquasso nella maggioranza (dopo quello provocato dall'ex-militare nella stessa Lega), soprattutto in Forza Italia, dove più di uno ha espresso sconcerto per la sortita. La difesa di Salvini, che non ha preso le distanze in maniera netta dal suo generale, è apparsa come un segnale di copertura politica.

E dopo il discorso di Ursula von der Leyen a Strasburgo sullo stato dell'Unione, Salvini ha rincarato la dose affrettandosi a dire alla leader dell'Ue di aspettarsi da Bruxelles «nervi saldi, prima di parlare di guerre e di invio di soldati bisogna contare fino a 100, non fino a 10. Questo sia per quello che riguarda la Russia, sia per quello che riguarda il conflitto fra Israele e Palestina». Il leader della Lega, del resto, non è nuovo a queste ambiguità. Nel momento di massima tensione internazionale, ha preferito non schierarsi apertamente ma ha lasciato intendere di condividere almeno in parte il giudizio di Vannacci.

Non a caso la maggioranza ha evitato di presentare una mozione sul riarmo: il rischio di spaccatura era troppo alto e Meloni non poteva permettersi di certificare in Parlamento la distanza tra l’ala atlantista di Tajani e quella latentemente filorussa della Lega. Ma la linea del Carroccio si è palesata comunque, attraverso le parole dell’ex militare e le uscite di Salvini. Finora la strategia leghista è stata efficace: inviare segnali benevoli verso Mosca, attaccare Bruxelles quando serve galvanizzare la base, e poi rientrare nei ranghi al momento dei voti decisivi. Ma il contesto ora è diverso: con Ursula von der Leyen che ha alzato i toni contro la Russia, parlando di «conseguenze gravi» per le violazioni di Mosca, per Meloni diventa sempre più difficile gestire un alleato che gioca su più tavoli.

Tajani, ovviamente, continua a marcare la distanza: «Condanno con fermezza la violazione del territorio polacco da parte di droni russi», ha affermato il ministro degli Esteri, «un fatto gravissimo e inaccettabile, che è un'offesa alla sicurezza dell'intera area euro-atlantica», lanciando un messaggio diretto non solo a Mosca, ma anche agli alleati di governo. Ma ai più avveduti degli analisti non sfugge che, in un contesto in cui in ballo ci sono le candidature alle Regionali, prese di posizione provocatorie come quelle di Slavini e del suo vice possono essere considerate anche come un mezzo per aumentare la pressione sulla premier al tavolo delle trattative.

Quello delle Regionali resta infatti un tema spinosissimo, dove il caso Vannacci si intreccia con la successione di Zaia e le strategie per Toscana, Veneto e Campania. Salvini ha fatto capire che la Lega è pronta e compatta, e ha aumentato il pressing su Palazzo Chigi per strappare il prima possibile la candidatura di un leghista in Veneto: «La Lega», ha detto, «è pronta da tempo, abbiamo le liste compilate forti in tutte le province da tempo, non abbiamo preteso nessun candidato. L'importante ora è scegliere in fretta perché dall'altra parte c'è un'alleanza che è debolissima, perché è una comunione di interessi».

Se le tensioni con la Lega dovessero crescere ulteriormente, o se la pressione internazionale dovesse obbligare l’Italia a scelte ancor più nette sul sostegno all’Ucraina, la premier rischierebbe di trovarsi davanti a un bivio politico: mantenere l’unità della coalizione a costo di compromessi sulla linea estera, o imprimere una svolta chiara che potrebbe generare una rottura vera con il Carroccio. Per ora la strategia è quella di contenere i toni, ma la partita è appena iniziata e Palazzo Chigi sa che i prossimi giorni saranno decisivi.