I 5S forzano la mano e presentano da soli la mozione di sfiducia contro la ministra Santanchè. È uno sgambetto che coglie un po' di sorpresa il Pd e Avs, che chiedono sì le dimissioni, come da manuale, ma non accennano a una mozione della quale il Nazareno era già da giorni tutt'altro che convinto. Servirebbe solo a compattare ancora di più la maggioranza e finirebbe per blindare una volta per tutte Santanchè, che invece rimarrebbe senza mozione ancora traballante. A maggior ragione l'ipotesi della mozione è sconsigliata dal brutto incidente dell'iscrizione nel registro degli indagati annunciata da un giornale, Domani, senza che la diretta interessata e i suoi avvocati ne sappiano niente, al punto che la stessa esistenza diquella iscrizione è in forse. Un fattaccio che ricorda alcuni tra i momenti peggiori dello scontro tra magistratura e politica, in particolare il primo avviso di garanzia contro Berlusconi, annunciato nel 1994 dal Corriere della Sera senza preavvertire l'indagato. Ce ne è abbastanza perché la ministra si lanci in una appassionata denuncia della «campagna d'odio» e perché nel dibattito il senatore Balboni, per FdI si lanci in un attacco violentissimo contro il quotidiano ma anche contro chi, nello specifico i 5S, «si fa dettare la linea da un giornale scandalistico».

L'autogol è clamoroso, tanto da destare dubbi sulla lucidità di chi abbia deciso una manovra che si è tradotta invece in un insperato aiuto offerto a Daniela Santanchè. Le comunicazioni in aula erano già in sé un po' assurde. Capire quanto siano probanti le giustificazioni della ministra, presa di mira in veste di imprenditrice, non poteva che essere impossibile come lo è accertare la fondatezza delle accuse mosse da Report. Impossibile per i parlamentari, a maggior ragione per tutti gli altri. In compenso è stata chiarissima, anche per le esperienze pregresse, la scorrettezza di una iscrizione nel registro degli indagati notificata ai giornali prima che al diretto interessato oppure addirittura inesistente. Come è ovvio l'opposizione ha fatto finta di non accorgersi del particolare e ha evitato di citarlo negli interventi di ieri al Senato. Ma ci penserà la maggioranza, indipendentemente dal merito del caso Santanchè, a montarla a dovere e non senza alcune buone ragioni. Il colpo tafazziano non colpisce solo sul fronte circoscritto delle accuse contro la ministra del Turismo: tornerà senza alcun dubbio in campo quando arriveranno nuovi interventi sulla Giustizia.

Per Giorgia Meloni il caso resta molto imbarazzante per vari motivi. Prima di tutto, in innumerevoli circostanze simili e anche più discutibili, FdI ha sempre reclamato con i decibel alle stelle dimissioni. Lo ha ricordato per Iv Borghi, con dovizia di esempi, parlando di «presunzione di innocenza a targhe alterne». In secondo luogo le parole della ministra hanno lasciato comunque, inevitabilmente, una zona d'ombra sul punto al quale l'opinione pubblica è più sensibile: il comportamento nei confronti dei dipendenti. Del resto la perplessità dell'intero governo era palese nelle espressioni di tutti e ciascuno mentre la ministra presentava la sua versione dei fatti. Infine Meloni non ha alcuna intenzione di legare l'immagine del suo partito, che vuole ancora “popolare”, a una imprenditrice identificata a torto o a ragione con il privilegio e il lusso e che, oltretutto, è stata fra le più truculente e vocianti nella campagna contro il reddito di cittadinanza.

Certo, per ora la maggioranza non può che fare muro. Se esisteva una remota possibilità che qualche crepa comparisse, è stata cancellata dalla indiscrezione a mezzo stampa. Capita addirittura che il capogruppo della Lega, cioè del partito che aveva sottolineato per primo l'opportunità di spiegazioni in aula, denunci l'inopportunità di dibattiti innescati da inchieste giornalistiche, senza che «si sia ancora visto un solo atto giudiziario». Ma la realtà è che, se l'inchiesta procederà credibilmente, la posizione della ministra tornerà a essere molto pericolante.