A maggio, al primo annuncio di Carlo Nordio sull’arrivo di una “versione governativa” della separazione delle carriere, l’ala garantista dell’opposizione, a cominciare da Enrico Costa, reagì con disappunto. «Abbiamo già svolto esaustive audizioni sulle proposte di legge costituzionali presentate da me e da altri deputati, peraltro di maggioranza: far precipitare, sull’iter delle carriere, un testo dell’Esecutivo serve solo a congelare la riforma», disse l’allora responsabile Giustizia di Azione, appena tornato in Forza Italia.

Ma adesso lo scenario è un altro. Sì, è vero: al lavoro che la Prima commissione di Montecitorio aveva già compiuto sulle proposte di matrice parlamentare bastava far seguire solo una rapida fase di esame degli emendamenti. Se la Camera, la scorsa primavera, non lo avesse messo in stand-by, a quest’ora il “divorzio” giudici-pm sarebbe già al vaglio del Senato.

Ma a fare la differenza sono due aspetti. Innanzitutto la tempistica, garantita da Francesco Paolo Sisto con un’intervista alla Stampa: sulla separazione delle carriere, ha detto il viceministro della Giustizia, «il nostro obiettivo è di concludere il primo passaggio parlamentare entro Natale». Sarebbe un gran risultato, anche a fronte dello scetticismo che accompagna i progetti di riforma durante la sessione di bilancio.

Ma se il numero due di via Arenula – e principale esponente, sulla giustizia, di FI, il partito che più di tutti sponsorizza la riforma della magistratura – si è sbilanciato fino a quel punto, è perché anche Fratelli d’Italia ha ribadito la volontà già espressa, a ridosso di ferragosto, dal capogruppo meloniano a Montecitorio Tommaso Foti. «Andrà ai voti prima la separazione delle carriere, poi il premierato», aveva preannunciato il presidente dei deputati di FdI. Dichiarazione che era risultata spiazzante, visto l’investimento compiuto da Giorgia Meloni sulla riforma che rafforza il Capo del governo. In realtà quel cambio di programma è del tutto coerente con la prudenza che la presidente del Consiglio ha deciso di adottare in vista del referendum, nel quale il vero quesito rischia di essere: «Vorreste ancora Meloni come premier, con poteri anche maggiori?».

È chiaro il discorso: il premierato può attendere. Ad agosto Foti provò a offrire una dipolomatica interpretazione dello “switch”: il punto, disse, è che la separazione delle carriere è solo alla prima lettura, mente il premierato ha già ottenuto un sì a Palazzo Madama. Ma al di là del tatticismo, della relativa frenata sul premierato, è evidente come la giustizia in sé, e in particolare la ridefinizione del rapporto fra politica e magistratura, sia avanzata nella gerarchia degli obiettivi, per il centrodestra. Anche la Lega tiene a non essere considerata come una “pattuglia di complemento”, rispetto alla separazione delle carriere. E per esempio il sottosegretario alla Giustizia che a via Arenula rappresenta il Carroccio, Andrea Ostellari, ha ricordato più di una volta come, sulle carriere di giudici e pm, il partito di Salvini rivendichi persino una primogenitura, rispetto agli alleati, visto che nel 2022 aveva sponsorizzato, col Partito radicale, il referendum per separare in modo assoluto almeno le funzioni, e che il relativo comitato promotore era presieduto da Nordio.

Ma non è finita qui. C’è un secondo elemento che rende ormai anacronistiche le recriminazioni di Costa della primavera scorsa: il ddl costituzionale proposto dal guardasigilli e consegnato poi dal Consiglio dei ministri alla Prima commissione di Montecitorio va oltre la separazione delle carriere: prevede una svolta ancora più ampia, per l’ordine giudiziario, a cominciare dal sorteggio, nei due futuri Csm, sia dei laici sia, soprattutto, dei togati. Un sorteggio – almeno per come il governo ha disegnato la riforma – integrale. Vuol dire sottrarre alle correnti qualsiasi effettiva capacità d’influenza rispetto alle scelte dell’autogoverno, in particolare in materia di nomine. È un tassello importante della “rivoluzione”, al pari dell’istituzione di un’Alta Corte disciplinare, a cui potrebbero aggiungersi, nel corso dell’esame parlamentare, il riconoscimento costituzionale dell’avvocato e la separazione degli stessi concorsi, sollecitata dal presidente del Cnf Francesco Greco nell’audizione dello scorso 12 settembre.

Possibile che una rivoluzione così profonda, nell’assetto della magistratura, possa procedere spedita, in tempi di snervanti trattative sulla Manovra, e tagliare il traguardo entro fine 2024? Possibile se l’alleanza di governo decide che la ridefinizionedel potere giudiziario è un’emergenza. E lo sarà, lo diventerà chiaramente a breve, non appena entrerà nel vivo la campagna elettorale in Liguria. Quelle elezioni anticipate scaturiscono dall’interpretazione che le toghe genovesi hanno dato del finanziamento alla politica. Vi hanno intravisto la scorciatoia entro cui insinuare una sofisticata forma di corruzione, tanto da costringere l’ex governatore Giovanni Toti a patteggiare. È una lettura che incide profondamente sul rapporto fra magistratura e politica, perché mette in discussione la libertà della seconda nel procurarsi sostegni economici regolarmente dichiarati. È un approccio che aggrava la sudditanza dei partiti rispetto alle Procure.

Con la separazione delle carriere, il centrodestra punta, ora, a modificare anche questa schema. E, nell’immediato, a reagire alla possibile sconfitta in Liguria con una risposta “definitiva”. Che poi da qui possa derivare un inasprirsi dei rapporti fra la maggioranza e l’Anm pare inevitabile. Ma è chiaro che, diversamente da quanto potesse sembrare solo fino a pochi mesi fa, di una simile eventualità Giorgia Meloni non ha affatto paura.