A Catania, dove si sta svolgendo il congresso dell’Unione delle Camere Penali, domani prenderà la parola Goffredo Bettini.

L’ex stratega del Partito Democratico ribadirà un concetto che negli ultimi mesi non ha smesso di sostenere: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non è una bandiera della destra, ma una riforma che può rafforzare la terzietà del giudice e la fiducia dei cittadini nella giustizia.

Una presa di posizione che, per quanto oggi sembri minoritaria dentro al Pd, fino a pochi anni fa non era affatto isolata. Anzi, era scritta nero su bianco nei documenti congressuali e sottoscritta da esponenti che ancora oggi siedono in Parlamento.

Basta tornare al 2019, quando Maurizio Martina si candidò alla segreteria. Nel suo programma, la separazione delle carriere veniva definita «ineludibile» per garantire un giudice davvero imparziale. A firmare quella mozione furono molti dirigenti democratici: da Graziano Delrio a Lorenzo Guerini, da Simona Malpezzi a Valeria Valente, fino a Debora Serracchiani, che allora condivideva la necessità di un intervento strutturale e oggi, da responsabile giustizia del partito, guida la trincea contro la riforma che il centrodestra sta portando ad approvazione e che sarà sottoposta a referendum confermativo.

Un capovolgimento che stride con la memoria recente e rende il paradosso evidente: ciò che allora appariva una necessità democratica viene oggi bollato come attentato alla Costituzione.

L'ultimo passaggio alla Camera, con i 243 sì alla riforma costituzionale e le proteste vibranti dell’opposizione, ha messo in scena tutta la contraddizione. Le grida, le accuse al governo di ignorare Gaza pur di esultare per la vittoria parlamentare, gli applausi di maggioranza: il merito della questione è scivolato via, sostituito da una battaglia di simboli e slogan.

Ma il dato resta: il centrodestra sta portando a casa un risultato che cinque anni fa era iscritto nell’agenda del Pd.

In questo quadro, l’intervento di Bettini arriva come un contrappunto non necessariamente scomodo. Non per sfiducia nella magistratura, precisa lui, e nemmeno per alimentare pulsioni giustizialiste. Al contrario, il suo ragionamento parte da una visione della giustizia come equilibrio fragile, in cui l’imputato – spesso solo, smarrito, disarmato – deve poter confidare in un giudice realmente terzo.

Da figlio di un avvocato cresciuto tra i racconti e le arringhe dei grandi penalisti del passato, Bettini richiama il dovere civile di riconoscere la sproporzione di forza che in ogni processo oppone lo Stato al cittadino. È qui che la separazione delle carriere diventa, nella sua prospettiva, un passo di civiltà: non un totem ideologico, ma un modo per rafforzare l’equità e restituire dignità tanto al giudice quanto all’imputato.

La sua visione affonda le radici in una tradizione di liberalismo di sinistra che diffidava di ogni potere senza contrappesi.

Montesquieu, ha ricordato Bettini in un suo recente intervento, temeva un potere giudiziario stabile e organizzato, preferendo immaginarlo intermittente, aperto, privo di strutture permanenti. Utopia, forse. Ma un’utopia nobile che serve a orientare il cammino, anche quando i passi sono piccoli e faticosi. Per questo, insiste, la separazione delle carriere non è né vendetta né cedimento populista: è un tentativo di dare forma a una giustizia che non si riduca a strumento di potere.

Il paradosso politico è che, mentre il Pd in blocco si schiera oggi contro la riforma del governo Meloni, un pezzo della sua stessa storia recente parla un linguaggio diverso.

L’intervento di oggi di Bettini a Catania avrà il merito di ricordare che su questo terreno non tutto è bianco o nero, e che la sinistra italiana aveva a lungo discusso della necessità di rafforzare l’imparzialità del giudice. La domanda che resta sospesa è semplice ma inevitabile: se nel 2019 la separazione delle carriere era auspicata, perché oggi viene trattata come una minaccia? Le urla in Aula non hanno dato risposta. Bettini, con la sua voce fuori dal coro, proverà almeno a riportare il dibattito sul merito.