Conosco Walter Veltroni da quando, pantaloni adolescenziali di biondo velluto a coste, faceva il consigliere comunale a Roma, nelle file del Pci. Posso sbagliarmi, ma credo di non aver ascoltato un suo intervento d’aula. Probabilmente l’incarico era formale e fittizio, al Consiglio Comunale di Roma era solo parcheggiato. Il giovane era destinato ad altre mete che, credo, conseguì tutte, divenendo leader del suo partito e figura governativa. A me pare di ricordare che la sua esperienza come sindaco di Roma non sia stata al livello di quella di Rutelli. Per lui, Roma era solo una tappa, le sue ambizioni erano molto inclusive, si piccava di cinema, d’Africa, di riletture della storia delle sinistre che non disdegnavano brevi flirt con le idee radicali allora sentite, a sinistra, come pericolosamente concorrenziali.

Figura comunque di spicco, oggi è, diciamo, un autorevole punto di riferimento. In tale veste interviene su La Repubblica ( 29 agosto) per commentare le vicende politiche italiane e per suggerire alla sinistra, o a quel che ne rimane, qualche idea per risorgere e tornare a contare, uscendo dall’attuale disgregazione e inadeguatezza. «È la sinistra, nella storia – sottolinea – che ha cambiato il mondo. Sono state le lotte contro lo schiavismo, per la liberazione delle donne, contro l’alienazione e lo sfruttamento, per i diritti civili e umani, contro le discriminazioni. È questo sistema di valori che ha reso la vita di ognuno sulla terra più libera e migliore. La sinistra lo ha saputo fare quando ha parlato al cuore delle persone, quando ha interpretato i bisogni di giustizia sociale, quando ha scelto la libertà. Cosa che non ha sempre fatto. Cinquant’anni fa la sinistra, per come la intendo, era nel sacrificio di Ian Palach e non nei carri armati con la falce e il martello». Nella nobiltà dei richiami e degli accenti, qui Veltroni commette errori di imprecisione non tutti innocenti. Quando si cita Palach, occorre prudenza e modestia.

Ma, ovviamente, la questione non sta solo in questi termini, le evocazioni del passato ci immergono in un clima di nostalgia persino dannoso rispetto allo sforzo di capire il presente e affrontare il futuro. Il richiamo ai meriti storici della sinistra ( o forse sarebbe meglio dire delle sinistre) non aiuta. Nessuno saprebbe dire oggi cosa significhi il termine “giustizia sociale”, quando non sappiamo quale posto occuperà il lavoro, e gli equilibri di lavoro e di reddito non hanno ancora trovato un punto fermo di lunga durata, quando la precarietà sembra essere divenuta una condizione permanente cui gli uomini devono adattarsi addirittura considerandola non una minaccia, ma una opportunità. Marx è morto, e noi non stiamo bene. Troppe caselle sono destinate a restare a lungo vuote nell’identikit dell’uomo 4.0, per provare a tracciarne il profilo. E se poi l’uomo che siamo chiamati a realizzare non fosse di “sinistra” ma di “destra”? A lungo, anche nei suoi momenti migliori, sembrò che all’uomo di “sinistra” mancassero qualità e doti necessarie, ma proprie all’uomo di “destra”.

La rivoluzione antropologica è appena iniziata – a livello mondiale – e quel che essa ci presenta non pare sempre e del tutto positivo. E’ comunque indecifrabile. Non è un caso se antiche e collaudate élites, formatesi e plasmatesi nel corso di secoli lungo parametri indiscussi sono oggi entrate in crisi, divenute irriconoscibili e persino invise presso le masse che esse dovevano ammaestrare e guidare. Viviamo così, e non solo in Italia, immersi in un caos in cui la fase creativa tarda ad emergere e farsi riconoscere anche nelle sue leadership ed elites. Valori e prospettive di ieri sono pressoché inutilizzabili. Le nuove classi dirigenti fanno di tutto per distruggerli o ameno ignorarli. Alla fine del mondo classico, la grande scuola degli epicurei sostenne e predicò una morale che esortava a vivere chiusi nella propria individualità e particolarità, essendo inutile tentare di correggere il corso dei tempi e della storia. “Late biosas” fu il motto di quella cultura, “vivi standotene nascosto” nel tuo piccolo io. Nel cinquecento il Guicciardini esortò gli italiani a curarsi del loro proprio “particulare”, abbandonando le grandi visioni universali alla Machiavelli.

Non siamo i soli a mettere un freno alle attuali ipotesi e prospettive veltroniane. Non vogliamo alzare il dito ammonitore contro di lui, i suoi valori e la sua storia; semplicemente, quei valori equella storia non ci dicono più nulla.