Non c'era bisogno di aspettare la convocazione per il 5 settembre di un'assemblea contro la riforma costituzionale per sapere che Massimo D'Alema non è solo il capo del Fronte del No al referendum dentro il Pd ma anche il vero nemico giurato di Matteo Renzi nel partito. L'unico, perché gli altri sono tutt'al più timidissimi dissenzienti, ma anche il solo davvero pericoloso.Massimino ha finito per incarnare, agli occhi dell'opinione pubblica, tutti i vizi della degenerata seconda Repubblica. Era l'uomo da rottamare per eccellenza: un giudizio ingiusto sul quale pesa, più che l'operato del leader, il carattere dell'uomo, la sua spocchia congenita, il sarcasmo feroce, l'abitudine a considerare semideficienti gli interlocutori e il gusto discutibile di farglielo capire. Ma, comunque lo si giudichi, ci sono pochi dubbi sul fatto che tra i leader della repubblichetta sia stato forse il solo dotato di vero spessore, uno dei pochi che non abbia fatto del cadere in piedi un'arte, e che nelle guerre dia il meglio e per certi versi il peggio di sé. E' capace di aspettare il momento buono a lungo, ma quando azzanna è un mastino. Ne sanno qualcosa i leader presi di mira, che in questi ultimi 25 anni non sono stati pochi. Quasi tutti del suo stesso partito, tutti della stessa area politica: Occhetto, Prodi, Cofferati, Veltroni, quest'ultimo, però, senza mai diventare davvero un nemico.Il conflitto tra il segretario della svolta e l'astro nascente del Pci-Pds ha condizionato a fondo la nascita della Quercia. Occhetto, esagerando ma non del tutto a torto, attribuisce all'opposizione di D'Alema il ritardo nello scioglimento del Pd, rivelatosi esiziale. I due proprio non si sopportavano, sul piano umano prima che su quello politico. «Il problema - spiegava a chiunque avesse voglia di ascoltarlo l'allora capo dei deputati Pds - è che "quello" ha avuto un'idea molto più grande di lui». Il segretario, negli ultimi tempi, evitava anche solo di rivolgere la parola al rivale.Occhetto sopravvisse alla sconfitta elettorale nelle prime elezioni politiche della seconda Repubblica, nel marzo 1994, non alla catastrofe delle europee pochi mesi dopo. Nel racconto del defenestrato, subito dopo quel voto D'Alema irruppe nella sua stanza e gli spiegò senza alcuna diplomazia che ormai "era obsoleto". Quando i giornalisti gli chiesero se fosse vero, D'Alema squadernò il meglio della sua mimica facciale: «Ci conosciamo da decenni. Vi pare che avrei potuto dirgli 'Sei ob-so-le-to'? Gli ho fatto un discorso politico, diciamo». Parole e smorfie interpretate come conferma piena.Per quanto spietato nella lotta politica, D'Alema non è mai stato un rottamatore. Non perché sia di buon cuore ma perché, da politico nato, ha sempre tenuto ben presente la necessità di evitare lacerazioni troppo profonde nel partito. Il caso Occhetto rappresenta l'eccezione. Non fu rottamazione ma epurazione in schietto stile Urss. Con lo sconfitto uscirono letteralmente di scena tutti i dirigenti a lui più vicini, da Iginio Ariemma a Claudio Petruccioli. Del segretario che aveva voluto e guidato la svolta fu cancellata persino la memoria.Il conflitto con Occhetto era durato anni, quello con Prodi fu più breve ma se possibile anche più catastrofico negli esiti. Prima di tutti per lo stesso D'Alema. Era stato il segretario allora sulla cresta dell'onda a inventarsi la candidatura del Professore e poi, dopo la vittoria dell'Ulivo, a blindarne il governo con quella "camera di compensazione" che era la commissione bicamerale per le riforme costituzionali da lui stesso presieduta.Però D'Alema quel Prodi non lo reggeva proprio. L'insofferenza era dovuta più al carattere che alle politiche. Baffino non perdeva occasione per lamentarsi della sua scarsa intraprendenza, della sua prudenza, del suo inesistente dinamismo politico. «Quella mozzarella» era la più comune ma anche una delle più gentili definizioni che il seretario dei Ds riservava al capo del governo e dell'Ulivo.I nodi vennero al pettine quando, due anni e mezzo dopo la vittoria elettorale, il governo, una volta coronata la missione dell'ingresso immediato nell'euro, si trovò sprovvisto di una prospettiva politica proprio mentre naufragava la bicamerale. Il seguito è noto. Nelle manovre politiche D'Alema era tanto abile quanto sprovveduto il Professore. Riuscì a detronizzarlo e rimpiazzarlo in pochi mesi giocando di sponda sia con la sinistra di Bertinotti che con la destra di Cossiga e Mastella. Un successo apparente che preparava il disastro. L'immagine di politicante infido e subdolo, maestro solo nei giochi di corridoio, Massimo D'Alema se la è cucita addosso allora, e ne è stato poi perseguitato. Ci ha messo del suo, ma in misura ben inferiore a quel che abitualmente si ritiene.La battaglia contro Sergio Cofferati, capo di fatto di quella fortissima minoranza di sinistra nel Pd che si era battezzata "il correntone", D'Alema non la ha invece mai presa troppo sul serio. Anche quando l'ex segretario della Cgil, che col leader dei Ds era già arrivato ai ferri corti al congresso dell'allora ancora Pd, pareva fortissimo, D'Alema restava imperturbato: «Non è uno che arrivi fino in fondo». Cofferati stesso dimostrò che aveva ragione, arrendendosi all'improvviso e accettando la candidatura a sindaco di Bologna.L'eterno braccio di ferro con Veltroni, che al contrario dell'amico/nemico è un virtuoso quando si tratta di cadere in piedi, è una storia a parte. E' stata guerra, a tratti anche incarognita, ma senza mai perdere un fondo di complicità generazionale che autorizza a parlare del Pds-Ds come di una diarchia, sempre in bilico tra lo scontro e l'alleanza tra i diarchi.Nel corso di questa parabola, di somiglianze tra il percorso del leader coi baffi e del suo attuale nemico ce ne sono a mazzi. Entrambi hanno sperimentato la via dell'alleanza con Berlusconi e hanno poi rotto quell'accordo per evitare spaccature nel loro partito. Entrambi hanno conquistato palazzo Chigi con una manovra di palazzo e hanno provato a riformare la Costituzione. Entrambi hanno dovuto fronteggiare uno scacco politico generale in elezioni locali.Il percorso parallelo rende le differenze più clamorose. Al bivio tra la divisione del partito e le riforme D'Alema scelse di sacrificare queste ultime, Renzi non ha avuto dubbi nell'imboccare la via opposta. Allo stesso modo il primo, dopo la sconfitta alle regionali del 2000, decise di anticipare la prevedibile ondata di critiche interne dimettendosi, il secondo ha escluso ogni responsabilità personale nella disfatta.Non è solo questione di carattere. D'Alema era ed è rimasto un dirigente formatosi alla scuola del Pci, convinto dunque che il partito venga sempre prima di tutto. Per Renzi, che non viene da nessuna scuola politica, è vero il contrario: il partito riveste per lui interesse solo come trampolino per la conquista del governo e come puntello per mantenerlo in piedi. Il disprezzo sbrigativo con cui l'attuale premier liquida le minoranze interne sarebbe stato impensabile per D'Alema, non perché fosse meno spocchioso o arrogante del fiorentino ma perché, da uomo del Pci, considerava comunque la lacerazione del partito il male peggiore. Dietro le somiglianze i due sono opposti.Sino a qualche mese fa chiunque avrebbe affermato senza esitazioni che uno era il passato, l'altro il futuro. Dopo la mazzata delle comunali, è lecito sospettare che aver sottovalutato Massimo D'Alema possa rivelarsi in futuro uno degli errori più gravi di Matteo Renzi.