Naturalmente sono tra quelli che augura sinceramente ad Alfredo Cospito, per quanto possa dissentire dalle sue opinioni e dalle sue gesta di anarchico, di uscire vivo dalla propria vicenda giudiziaria, e più in particolare penitenziaria. Che si è un po' troppo complicata sicuramente per il regime non a caso chiamato “duro” cui è stato sottoposto, e che non è condiviso da un sacco di gente perbene, e non solo dai mafiosi, terroristi e quant’altri vi siano incorsi, ma anche per la decisione da lui presa di protestare con lo sciopero della fame. Che lui stesso ha voluto aggravare con la disposizione scritta di non sottoporlo a cure di sopravvivenza se e quando perderà coscienza nel carcere dove è stato trasferito, da Sassari ad Opera, proprio per metterlo in maggiore protezione sanitaria.

Non addebito, per carità, a Cospito chissà quali trame politiche per avere praticamente fatto coincidere i percorsi del suo sciopero e del governo realizzato da Giorgia Meloni dopo la sua vittoria elettorale, non gradita neppure agli anarchici. Si è trattato solo di una coincidenza, diciamo così. Di cui tuttavia Concita De Gregorio su Repubblica, trattando di altri aspetti della stessa questione, in particolare del comune interesse di mafiosi, terroristi e anarchici contro il carcere duro, ha scritto non a torto che «chiamiamo coincidenze quel che non riusciamo a spiegare». Povera Concita, magari incorrerà anche per questo in chissà quali polemiche, dopo quelle che si è procurate di recente scrivendo della Meloni senza insultarla, anzi riconoscendole qualche qualità o elemento di buon interesse.

Coincidenze per coincidenze, il caso ha voluto anche che la delegazione del Pd recatasi il 12 gennaio scorso al carcere di Sassari per visitare Cospito - e presa di mira nell’aula della Camera dal meloniano Giovanni Donzelli con parole un po' troppo sopra la righe provocando rumorose proteste e imbarazzando, sembra, la stessa presidente del Consiglio a Palazzo Chigi - abbia compiuto la sua legittima missione, per carità, durante il percorso congressuale del partito. Che, d’altronde, è tanto lungo da avere incrociato ormai tutto, compresi – ripeto - i primi 100 giorni del novo governo, e non solo lo sciopero della fame del detenuto anarchico.

La delegazione del Nazareno, chiamiamola così dal nome della strada romana dove ha sede nazionale il partito, era composta dalla capogruppo della Camera Debora Serracchiani, dal senatore Walter Verini, tesoriere e già responsabile dei problemi della giustizia della sua forza politica, dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e da Bachisio Silvio Lai. Del quale, scusandomi, non conosco le particolari competenze nel Pd, oltre alla sua professione di dentista. Ma, trattandosi di un deputato sardo eletto proprio a Sassari, potrei ben pensare, senza mancargli di rispetto, ch’egli abbia fatto un po’ il padrone di casa ai colleghi arrivati nell’isola per sincerarsi legittimamente - ripeto delle condizioni di salute e altro del detenuto in ostinato sciopero della fame.

Mi scuso per l’eventuale mancanza di discrezione, la involontaria malizia e quant’altro, ma sarei curioso di sapere se la composizione di quella delegazione parlamentare fu decisa a suo tempo col solo, esclusivo criterio della competenza, che certamente non mancava e non manca, per esempio, a Orlando e Verini, in rigoroso ordine alfabetico, o stando bene attenti a coprire tutte le aree, o correnti, del partito. E ciò per via della coincidenza col clima congressuale e persino “costituente” nel quale il Pd si trova. Un clima che fa di tutto un caso poliedrico, a doppia, tripla e ancor più diffusa lettura. Basterà pensare al clamore, a dir poco, scoppiato con l’annuncio di adesione al Pd da parte della “iena” ex grillina Gino Giarrusso, attratto - hanno scritto al Fatto Quotidiano nella cattiveria di giornata in prima pagina – dalla «carne di cadavere» del partito. E forse anche del candidato alla segreteria prescelto dal nuovo arrivato senza avere prima chiesto scusa di tutte le nefandezze urlate contro quella parte in passato.

A mio modestissimo avviso, più il caso umanitario di Alfredo Cospito, quale lo considero condividendo l’opinione di Luigi Manconi che la vita e la dignità di ogni detenuto vanno difese «a prescindere dal suo curriculum criminale» ; più il caso umanitario di Alfredo Cospito, dicevo, viene immerso nella politica, nelle sue logiche, nei suoi giochi, nelle sue contingenze, nelle sue beghe, più lo si complica e se ne compromette una soluzione ragionevole.

A furia di buttare in politica questa vicenda, e di pensare di strumentalizzarla in un verso o nell’altro, mi è toccato addirittura di vedere da qualche parte paragonare Cospito ad Aldo Moro e lo Stato, o il governo, alle brigate rosse che nel 1978 lo sequestrarono fra il sangue della scorta per ucciderlo spietatamente dopo 55 giorni di prigionia come un cane. Al quale spararono, inerme nel bagagliaio di un’auto, in modo tale da prolungarne al massimo la dolorosa agonia, come ha accertato l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta. Sono semplicemente inorridito al paragone.