Adesso che l'incarico è ufficiale con tanto di nota autografata, è possibile provare ad approfondire il senso, le ragioni e soprattutto le aspettative che hanno spinto Silvio Berlusconi a chiedere a Stefano Parisi «un'analisi approfondita della situazione politica ed organizzativa di Forza Italia e ad elaborare un progetto per il rilancio ed il rinnovamento della presenza dei moderati italiani in politica». Un compito ad personam, spiegano i giornali. «Uno stage da studente Erasmus», mormora qualche buontempone in Transatlantico. Intanto la prima domanda: perchè Parisi? Perché affidare ad un "esterno" un compito così delicato? Risposta: intanto perchè si tratta dell'uomo che ha sfiorato la vittoria a Milano e ridato chances di competitività ad uno schieramento che sembrava avviato al declino. E poi perché un esterno può agire con margini più ampi, o se si preferisce con meno vincoli e pressioni, di un personaggio politico. Soprattutto l'"esterno" non altera i già precarissimi equilibri di un partito per tanti motivi abbondantemente in fibrillazione.Seconda domanda: quale utilità può avere un mandato al tempo stesso così ampio e così stringente? Risposta: capirlo significa arrivare al nocciolo del problema. Che poi è quello del futuro non tanto e non solo di FI bensì di un insieme di forze assai vasto eppure con rappresentanza politica inadeguata alla sua forza, schiacciato dallo scontro egemonico e totalizzante tra Pd da un lato e Cinquestelle dall'altro. Il punto da cui partire, infatti, sta proprio qui. Nella oramai comprovata spinta dei cosiddetti moderati di centrodestra a privilegiare Grillo rispetto a Renzi quando il duello per la vittoria elettorale - per esempio nei ballottaggi - non li riguarda. E siccome questo è lo schema che sempre più si ripete, il pericolo è che la presenza politica dei moderati diventi così subalterna da risultare impalpabile. Per rovesciare un andazzo suicida occorre ritrovare una guida forte, autorevole e carismatica, accompagnata da parole d'ordine capaci di ammaliare come in passato la maggioranza degli italiani.La soluzione, come è noto, Berlusconi già ce l'ha: lui stesso. Più che una soluzione, è una suggestione. Se potesse, l'ex Cav si clonerebbe. Non potendo, lascia la leadership impregiudicata: una questione che le vicende cardiache delle ultime settimane hanno resto ancor più delicata e l'inner circle affollato dal pressing di Marina e degli altri figli. Niente di meglio, perciò, che spendere l'estate in un esercizio analitico tanto più lungo quanto approfondito. Serve a prendere tempo, a sedare appetiti e richieste dei colonnelli, a ricompattare le fila in vista della battaglia per il No al referendum senza squilibranti interferenze su delfinati o robe simili. Una volta conclusa la partita referendaria - negli auspici di Berlusconi sperabilmente con la sconfitta di Renzi - se ne riparlerà. Anzi: da questo punto di vista, un bell'appuntamento politico-organizzativo settembrino, con tante bandiere e l'inno forzista sparato a mille, non può che far bene. Chi lo organizza? Parisi naturalmente. Se va bene, tanto di guadagnato; se va male, la colpa è dell'Erasmus evidentemente fatto male.Insomma quel che si deduce è che la ricetta berlusconiana è sempre la stessa, e lo studio di Parisi non potrà che confermarla: centrodestra dentro il perimetro già individuato dal Signore di Arcore nel '94; primazia a lui stesso affidata quale indiscusso Timoniere.Poi però c'è anche il partito. E la classe dirigente che nel frattempo in questi anni si è costituita e consolidata grazie alle vittorie (poche) e alle sconfitte (molte di più). Una classe dirigente che che fatica tutti i giorni nel confronto con i tantissimi elettori delusi; che deve affrontare prove di governo e di opposizione spesso in contemporanea; che deve compattare i ranghi e trovare il modo di sottrarsi alla calamita renziana e al prosciugamento pentastellato.Questa classe dirigente non gradisce - e si capisce perché - imposizioni dall'alto. Nè interventi decisori che taglino ogni possibile confronto e una volta di più delegittimino chi è in trincea giorno dopo giorno.Dunque le parti in commedia sono delineate. Su un fronte c'è Berlusconi che continua ad avere una concezione proprietaria di Forza Italia, la considera una società come tante in portafoglio di cui possiede golden share e pacchetto di maggioranza. Che può essere gestita come una riserva dove intervenire a piacimento: anche e soprattutto nell'individuazione delle figure politiche di riferimento. Sul fronte opposto ci sono una serie di personaggi che, consci dell'atteggiamento mentale berlusconiano, puntano ad inserire dentro FI meccanismi "democratici" di selezione come succede (o succedeva, a scelta) in altri partiti, presenti e passati: congressi, organismi dirigenti, selezione attraverso le primarie. Due mondi alieni destinati a cozzare l'uno con l'altro. La forza di Berlusconi è il suo stesso limite: vedere Fi e il centrodestra come sua emanazione diretta, senza considerare che i tempi passano e quello che era una volta non può più essere. La forza e i limite dei suoi collaboratori è immaginare strumenti d'azione che saranno e sono sicuramente legittimi ma che hanno agli occhi dell'ex Cav un difetto ineliminabile: se concretizzati sul serio, renderebbero scalabile quel che scalabile non può diventare.Tutto come prima, allora? Non esattamente. La novità sta che nel fatto che adesso questa malmostosità viene allo scoperto senza che possa essere più contenuta. Nel passato, infatti, la contrarietà alle scelte di Berlusconi manteneva un che di umbratile e omertoso: adesso non è più così. Il risultato costringe ogni parte ad armarsi in proprio. Silvio affidando a Parisi un ruolo di cui in altri tempi non avrebbe sentito il bisogno. I colonnelli a ricorrere ad un'arma subdola ma inoppugnabile per sbarrare il passo agli "esterni": il richiamo alla leadership berlusconiana unica e intramontabile. Una commedia dai contorni gattopardeschi. Con il corollario di un serissimo pericolo: che chi è terzo resti tale. E il centrodestra diviso e perdente, altro che concorrenziale.