La direzione "numero 31", come l'ha chiamata Matteo Renzi per sottolinerare che nel suo Pd c'è «democrazia interna», quella annunciata come la tappa dello scontro finale tra premier-segretario e minoranza di fatto non ancora iniziata era già finita. Del resto la rottura, quella vera, si era già consumata sui giornali mentre in direzione un filo seppur esile di dialogo è rimasto.Perché ad iniziare da ieri, dopo la rottura sul referendum, con bersaniani e dalemiani ormai per il No, è stato di fatto aperto il congresso, con l'obiettivo dell'opposizione di riprendersi il partito, sull'onda di una sconfitta del Sì. Ormai per Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e gli altri leader anti-renziani il dado sembra tratto. Ma, in un gioco del cerino che sembra solo agli inizi, per non prendersi la responsabilità di una rottura, la minoranza prima di ufficializzare il No al referendum, chiede «atti concreti» sulla legge elettorale.Ma che le cose siano messe male e le aperture di Renzi non siano ritenute affatto sufficienti (vengono anzi giudicate "una finta") lo dice chiaramente ancora prima dell'inizio della fatidica riunione, prevista alle cinque della sera ma poi slittata alle 18, il bersaniano di ferro Davide Zoggia, che lo aveva già previsto una settimana fa a Il Dubbio.E Speranza, che giudica insufficente la propsta del segretario, decide però di andare a vedere el carte: «Non mi sottrarrò al confronto fino all'ultimo».Zoggia poi anticipa il no a un eventuale governo guidato da Dario Franceschini se Renzi dovesse perdere il 4 dicembre. Non basta, per la minoranza dem, la carta che il premier-segretario cala dalla manica con aperture sulle richieste della minoranza rispetto alla legge elettorale e per disinnescare la mina di quel «combinato disposto» che secondo Bersani, in un'intervista a Il Corriere della sera, porterebbe a un predominio "del capo". Quello che poteva essere un asso, che avrebbe potuto spiazzare gli oppositori, si rivela alla fine per Bersani e compagni (con un cauto distinguo di Gianni Cuperlo) un due di picche. Renzi rinvia le modifiche a «una settimana dopo l'esito del referendum» e dice: «Ora prepariamoci alla grande manifestazione per il Sì del 29 ottobre».Quanto alle proposte di modifica sull'elezione diretta dei senatori, il premio di lista eventualmente da spostare alla coalizione e magari anche la messa in discussione del totem-ballottaggio, concede che se ne occupi una commissione guidata dal vicesegretario Lorenzo Guerini, i capigruppo e un esponente della minoranza. Chi? «Scegliete voi». Facce scure da parte degli oppositori che subito avrebbero commentato tra loro: «Ci prende in giro, propone modifiche da fare a babbo morto?». Insomma dopo il referendum e senza che la minoranza abbia più in mano l'arma di pressione del No alla consultazione del 4 dicembre.Renzi non fa sconti alla sua opposizione, attaccata anche perché «prima ancora che si discuta, già viene fuori l'idea del logo dei democratici per il No». Di più: liquida quelli di Bersani e compagni, pur non citandoli, «Mal di pancia» e «allucinazioni».Sin dall'inizio Renzi avverte che «valgono di più gli impegni con gli elettori che i mal di pancia dei leader». Gianni Cuperlo, che, tra gli oppositori, finora aveva mantenuto una posizione più sfumata rispetto a quella degli altri leader, annuncia con tono pacato il suo No («un minuto dopo, Matteo stai sereno, mi dimetterò dal parlamento») se non ci saranno «atti concreti» prima del referendum e quindi non una settimana dopo.Come aveva proposto Renzi. Che Cuperlo accusa di «stressare» con il referendum un Paese già provato e attacca per «l'arroganza che si fa ormai marchio di stagione». Non risparmia neppure il presidente del Pd Matteo Orfini che non si è congratulato con Ignazio Marino per l'assoluzione. Cuperlo aveva avvertito: «Siamo a un passo dalla scissione» invitando Renzi a evitarla. Ieri sera in direzione, di fronte alla proposta non soddisfacente data da Renzi, ha lanciato il sospetto che il segretario e premier ormai voglia «farsi dire dei No». Gli chiede una prova di «saggezza di non spezzare un filo sottile». Ma Cuperlo non rompe: «E' comunque un segnale quello dato da Renzi che io voglio cogliere. Giusto andare a vedere la sostanza». Per riprendere le parole di Cuperlo resta solo un filo ancora a tenere uniti i due Pd. Anche perché, confida un esponente della minoranza a Il Dubbio: «Ammesso che Bersani voglia votare sì, ci sono i nostri elettori che ci dicono che loro votano No. E noi non possiamo andare contro il nostro elettorato». Secondo un sondaggio sarebbero oltre il 30 per cento gli elettori di sinistra orientati per il No. Ora l'obiettivo è il congresso per riprendersi il Pd. Ma se vincesse il Sì è chiaro che il filo che lega i due Pd rischierebbe davvero di spezzarsi.