Non chiamatelo Onorevole. Roberto Giachetti è uno che nell’Aula della Camera ci piazzerebbe anche la tenda e il materasso, ma non per le ragioni che pensate voi. Il fatto è che quel paesaggio umano gli piace da impazzire, quasi quanto gli era piaciuta la sede dei Radicali la prima volta che ci ha messo piede. Siamo lì: «Un circo. Se potessi mettere l’urna funeraria ci starei tutta la vita».

Dunque il deputato di Italia Viva non lo vedrete mai appisolarsi sui banchi dell’opposizione col completo fresco di lavanderia, al contrario: se gli gira sono guai per tutti, soprattutto per i grillini. La bagarre di Montecitorio è cosa sua, invece «al Senato sai che noia».

Ma in verità la Camera è solo la terza casa, per Giachetti. La seconda è il Campidoglio e in cima ci sono le strade della sua Roma solcate in sella al motorino. Tanto che “Bobo” pare un personaggio uscito da un film di Nanni Moretti, ma noi vi assicuriamo che è reale. E pure concreto, sui temi che gli interessano: carcere, ambiente, diritti e affini. O almeno è concreto lo strumento che usa spesso per raggiungere il traguardo: lo sciopero della sete e della fame. L’ultimo appena terminato, 24 giorni, per richiamare l’attenzione sulla legge scritta con Rita Bernardini sulla liberazione anticipata. Che il dramma delle carceri dovrebbe almeno un po’ alleviarlo.

«In carcere c’è grande sofferenza e la cosa che più ci fa stare male è che proprio chi ti condanna non sa nemmeno come sia fatto un carcere… Le posso assicurare che a Rebibbia tutto si fa tranne che la rieducazione del detenuto. Ho scritto molte mail, ho scritto anche al ministro Nordio, ma la voce della moglie di un detenuto rimane inascoltata e soprattutto scomoda». Lo si legge in una lettera che ha sulla scrivania, possiamo assicurare anche questo. Ma se non ci credete chiedete pure a chi riceve la posta a Montecitorio: vi dirà che per Giachetti il mittente è spesso un galeotto. Chiariamoci, disperati a un passo dalla libertà che chiedono uno slancio, che non vorremmo far venire strane idee ai magistrati che lo tengono d’occhio.

«Penso che una delle più grandi operazioni di educazione civica che potrebbe far cambiare culturalmente l’approccio del nostro paese sarebbe di trasmettere con una certa frequenza dei documentari che asetticamente, senza alcun giudizio, facciano vedere come si vive in carcere». Giachetti lo sa, ci va anche a Natale e Capodanno. Ma «cerco di spiegare che c’è anche un interesse dello Stato, ad aiutare le persone a reinserirsi». Cambia tono, se ripensa a certe scene. «Capisci che il sistema non riesce ad avere la clemenza». Abolire? «No. Penso che se noi applicassimo la Costituzione avremmo due terzi dei detenuti fuori. Un percorso che sarebbe perfettamente realizzabile. Trovo inaccettabile che il carcere diventi una casa della vendetta».

Comunque si diceva del digiuno prolungato, scuola Pannella: tre cappuccini al giorno. Al massimo brodo, che «dopo un po’ il latte ti stronca». Il più lungo è servito contro il Porcellum, e la battaglia gli è valsa anche un mini oscar di plastica nell’ufficio. «Il medico me voleva ricovera’». Ma «per mettere in campo azioni non violente che possono comportare anche rischi, devi avere una convinzione interiore così grande che quel problema non te lo poni proprio». Parla della morte. Però ha paura? «Da quando sono bambino sono terrorizzato dalla morte. Sono talmente innamorato della vita, che pensare che finisca mi fa rodere il culo. Ma con gli anni gestisco meglio la partita». Da piccolo faceva il chierichetto e sperava di allungarla con le indulgenze, ma poi la fede l’ha persa per diventare agnostico. Tutto il contrario di Francesco Rutelli, che invece l’ha trovata. Con il suo leggerissimo accento romano Giachetti confessa di subire il fascino solenne di una chiesa, ma resta «assolutamente anticlericale». Non gli va giù la parte “materiale”, e ne ha viste in Campidoglio.

Sul fine vita ha cambiato un po’ idea negli anni e non ha deciso ancora, ma ora gli basterebbe che ognuno decidesse per sé. Una lezione dura l’ha incassata un paio di anni fa, quando gli hanno detto del tumore. «Scoprirsi vulnerabili... Sai quando stai al Luna Park che entri in quei giochi dove sei sbattuto da una parte all’altra e non riesci a trovare un punto di equilibrio». Lo cerca nell’ironia. Che è il tratto distintivo del nostro politico-giornalista amico di tutti, pure di Meloni e Di Maio. Divorziato con due figli e una canetta inseparabile, Maude. Giachetti, un esemplare da ritratto e per questo non ci dilungheremo sulla storia che si trova pure su Wikipedia. Tanto dai Radicali a Italia Viva passando per la Margherita e il Pd basta sapere del triangolo decisivo. Pannella, il primo amore. Poi Rutelli e Renzi. Ma con gli opportuni distinguo. «Solo con Marco c’è stata un’attrazione intellettuale. Francesco ha rappresentato un pezzo importante che mi ha fatto crescere professionalmente (come capo di Gabinetto e il capo della segreteria del Comune di Roma, ndr), ma Rutelli mi ha deluso, cosa che Pannella non ha mai fatto». E Matteo? Ha coraggio e lungimiranza politica. «Ti fa fare quello che vuole». Gli ha permesso di fare il vicepresidente della Camera che è stato il regalo più grande. Pannella voleva la diaspora dei radicali e ora Giachetti sembra l’imbucato radicale che sussurra al Centro. Lo rimette sulla retta via del garantismo. Ma non parlategli della corsa a sindaco di Roma contro Virginia Raggi che ora gli sembra un «incubo».

Torniamo all’aula, dove Giachetti ha fama di essere il mago dei regolamenti. Se li studia a dovere e riesce a dare qualche spallata anche quando non ha i numeri. Ma il fiuto sì, come quella volta che bisognava eleggere Sergio Mattarella giudice della Corte Costituzionale. «Capisco che c’è qualcosa. E allora chiamo Madia che era incinta di otto mesi e lei si fionda in aula. Mattarella passa per un voto».

La sua qualità? «Anche un difetto: non avere filtri». Figlio di un papà un po’ austero e di una famiglia borghese, gli è rimasto l’imprinting della militanza giovanile che andava in direzione contraria. Al padre sembrava fuffa. Voleva fargli fare l’architetto. Ma da sincero liberare non gli ha mai impedito di entrare in casa col giornale di Lotta continua, anche «se ci moriva». Poi il figlio col tempo l’ha reso orgoglioso. Prima con quell’esame di diritto costituzionale che non passava nessuno, dice, quando faceva ancora l’Università. Poi con i risultati in politica. «Sono andato da lui e gli ho detto: guarda papà che mi candido a sindaco di Roma. È morto subito dopo». Sono perdonate anche le canne, che tra l’altro Giachetti non fuma più. Ma non è un mistero che si batta per la liberalizzazione delle droghe leggere. Però non ha mai menzionato la cocaina, come invece gli avrebbe attribuito Nicola Gratteri: «Sto pensando di querelarlo». Fatti loro. Ma ci permettiamo di dire che a passare dieci minuti con Giachetti ci si rende conto subito che non può stare fermo neanche un secondo. Con la sua voce radiofonica parla più veloce dei pensieri che pure sono veloci, e a momenti fa cadere il quadro che gli sta dietro la sedia. Altro che cocaina, ci vuole il calmante.