L’assoluzione di Silvio Berlusconi al processo Ruby ter «perché il fatto non sussiste», chiude il cerchio della “Guerra dei trent’anni” con la magistratura italiana.

E ci sono pochi dubbi sul vincitore dell’epico duello: con una sola condanna su 136 procedimenti giudiziari a carico, il Cavaliere passerà infatti alla storia come un perseguitato politico. Se fosse un pugile avrebbe collezionato 135 vittorie, molte per ko, e una sola sconfitta ai punti. Con buona pace dei suoi irriducibili avversari che proprio non riescono a farsene una ragione di vederlo in libertà e di buonissimo umore alla veneranda età di 86 anni.

Dovranno rinunciare al sogno di una senescenza dietro le sbarre di una prigione, magari umiliato da un braccialetto elettronico o addirittura in esilio, nei mari del sud, come il suo amico Bettino Craxi. Ma non era affatto scontato che le cose andassero a finire in questo modo, perché lo scontro con le toghe è stato durissimo e senza quartiere e sarebbe potuto finire per atterramento alla prima ripresa ai danni del Cav invece di diventare una saga giudiziaria infinita.

Il primo squillo dei magistrati fu una specie di bomba atomica: martedì 21 novembre 1994 Berlusconi riceve da presidente del Consiglio un avviso di garanzia per concorso in corruzione mentre stava partecipando alla Conferenza mondiale dell’Onu sulla criminalità organizzata che si teneva a Napoli al cospetto dei leader del G8. Il mittente è la procura di Milano con un testo scritto di suo pugno dal giovane e fervente sostituto Piercamillo Davigo.

Un atto politico, al di là delle intenzioni e della buonafede giacobina del pool di “Mani pulite”, tant’è che di lì a poche

settimane il governo implode con la Lega di Umberto Bossi che si sfila, togliendo la fiducia e spianando la strada all’esecutivo “tecnico” guidato da Lamberto Dini.

Silvio Berlusconi sembrava destinato all’oblio politico, una meteora o un incidente della storia, un corpo estraneo partorito dalle macerie della Prima repubblica e dal crollo dei partiti di massa, una fugace bizzarria da raccontare ai nipoti, insomma.

Ma il leader di Forza Italia non aveva alcuna intenzione di farsi da parte, e all’ombra dell’effimero successo di Romano Prodi e del centrosinistra, mentre tutti parlavano di “Ulivo mondiale” (sic) è riuscito a unificare una destra che senza di lui sarebbe rimasta impresentabile per chissà quanti anni.

E per un ventennio è stato il mattatore assoluto della politica italiana, generando da una parte un post- moderno culto della

personalità e dall’altra il fiume carsico dell’antiberlusconismo, alimentato dal basso dalle piazze, con i girotondi, il popolo viola, i “se non ora quando”, e dall’altro dai continui assalti della magistratura. In quel grumo di rancore politico la sinistra si abbandona definitivamente al giustizialismo, smarrendo i suoi principi libertari e garantisti.

È stato quasi un doppio lavoro quello di imputato- capo del governo (senza contare l’attività di imprenditore), peraltro doppio lavoro molto dispendioso: «Mi è costato 770 milioni, pagare i 105 legali che mi hanno assistito nel corso dei processi a mio carico, con oltre tremila udienze che mi hanno costretto a passare tutti i sabati e le domeniche pomeriggio a lavorare con loro in vista dei processi», raccontò nel

2018. Una cifra che alla fine della giostra potrebbe toccare il miliardo di euro.

Siamo nel cuore del romanzo giudiziario con una valanga di inchieste che si abbatte come uno tsunami sul capo di Mediaset, impossibile citarle tutte, dalla falsa testimonianza sulla Loggia P2, alle tangenti della Guardia di finanza, ai due processi All Iberian sui fondi al Psi e sul falso in bilancio, alla corruzione dell’avvocato Mills, dal Lodo Mondadori al Caso Toghe sporche- Sme, e poi Mediatrade, i terreni di Macherio, il caso Lentini, la frode Telecinco, il concorso in associazione mafiosa e riciclaggio. Una vertigine di accuse e di processi e una sperequazione impietosa tra i mezzi profusi dalle procure e i risultati ottenuti. Molti tirano in ballo i diversi proscioglimenti per avvenuta  prescrizione, un istituto che esiste in tutte le democrazie per proteggere gli imputati dal supplizio di un processo infinito e che al contrario segna proprio la sconfitta della pubblica accusa, incapace di individuare le prove della colpevolezza in tempi ragionevoli.

L’unica vittoria dei magistrati nei confronti del Cavaliere è la sentenza di colpevolezza per falso in bilancio del 1 agosto 2013 nel processo Mediaset che gli costa tre anni di  prigione, due condonati dall’indulto e il terzo scontato in assegnazione ai servizi sociali in una casa di riposo milanese. Scatta immediata la decadenza della carica di senatore e impossibilità di candidarsi alle elezioni secondo i dettami della legge Severino. La riabilitazione avviene dopo cinque anni di purgatorio con la sentenza del tribunale di sorveglianza di Milano che l’ 11 maggio 2018 che restituisce a Silvio Berlusconi tutti i suoi diritti.