C’era chi andava a testa bassa contro i mulini a vento, ed è stato reso immortale dalla letteratura, e c'è chi abbassa la testa per scrutare i sondaggi, e mostra il suo volto più severo contro gli autovelox.

Come è noto il leader leghista Matteo Salvini, nell'attesa che il sogno di tornare al Viminale diventi realtà (prospettiva per ora lontana) sta cercando da qualche tempo di distillare vantaggi in termine di consenso personale ed elettorale dal proprio ruolo di ministro dell'Interno. Un'operazione decisamente comprensibile da parte di chi governa una forza politica e deve costantemente badare al proprio gradimento presso i cittadini.

Nel caso del vicepremier e della sua indiscutibile disinvoltura nel cavalcare alcuni filoni ritenuti proficui, il cortocircuito è sempre dietro l'angolo. E così, accanto a una campagna molto sostenuta di comunicazione relativa all'approvazione del nuovo codice della strada, tendente a sottolinearne l'aspetto intransigente, soprattutto per ciò che riguarda la guida in stato di ebbrezza e di sostanze stupefacenti, è emersa – per usare un eufemismo – una certa ambiguità rispetto alla questione degli strumenti per contrastare l'eccesso di velocità.

Il più efficace, come è noto, è quello tecnologico dell'autovelox, divenuto un vero e proprio incubo per gli automobilisti refrattari a rispettare i limiti, sia nei centri urbani che nelle strade statali o autostrade. I più intraprendenti tra di loro, sostenendo la tesi che in molti casi le giunte comunali abusino di questi dispositivi per fare cassa, si sono ingegnati e hanno prodotto un ricorso in Cassazione che ha sortito i propri frutti, visto che l'anno scorso la Suprema Corte ha stabilito che un autovelox, oltre che collaudato e approvato, deve essere anche omologato, e che pertanto gli accertamenti fatti con un dispositivo non omologato vanno considerati illegittimi.

Ed ecco il cortocircuito: nello stato di cose che si è venuto a creare, il ministro competente non ha resistito ad applicare il suo consueto protocollo di omaggio alla pancia del paese, aderendo convintamente alla tesi dell'”autovelox-bancomat” sin dall'inizio, giustificando il proprio operato con la necessità di porre un argine all'abuso dei dispositivi.

Nel febbraio dello scorso anno, al culmine della polemica, con un post sui social, Salvini aveva commentato il “boom” di multe scrivendo che «i rilevatori di velocità sono utili nei punti e nelle strade più a rischio ma non possono essere piazzati ovunque, senza alcuna motivazione di sicurezza, solo per tartassare lavoratori e automobilisti». Poi, l'annuncio di un decreto che avrebbe fatto chiarezza, ma che è stato bloccato in dirittura d'arrivo dallo stesso ministro, adducendo la motivazione della necessità di un approfondito censimento degli autovelox presenti su tutto il territorio nazionale.

Il che è alla base della polemica delle ultime ore, visto che Salvini ha scritto una lettera al presidente dell'Anci Gaetano Manfredi, per sollecitare tale computo, alla quale i sindaci hanno risposto con delle percentuali, ritenute lacunose dal vicepremier. Nel frattempo, da via Bellerio è partita una nota d'appoggio a Salvini, impegnato a «proteggere vite e tasche dei cittadini» poiché «i dispositivi devono servire solo a prevenire comportamenti scorretti alla guida, non a trasformare gli utenti della strada in un bancomat».

Un'impostazione che fa il paio con quella assunta rispetto all'adozione delle “zone 30” da parte di alcune amministrazioni cittadine, prima fra tutte Bologna. In quel caso, da Porta Pia era partita una circolare in cui si raccomandava di non posizionare gli autovelox nelle aree dove i limiti di velocità sono già inferiori a quelli previsti dal codice, come appunto nelle zone 30. Resta ora da vedere se il censimento degli autovelox somiglierà progressivamente ad un altro censimento i cui tempi appaiono molto dilatati, e cioè quello degli stabilimenti balneari e sulle concessioni in atto.