Il progetto leghista continua a non convincere Fratelli d’Italia e Forza Italia, partiti radicati al Sud che non intendono lasciare carta bianca al Carroccio

È LA RIFORMA DELLA DISCORDIA, LO RICORDANO BENE ANCHE SALVINI E CONTE: NEL 2018, PRIMA DEL PAPEETE, IL TEMA DELL’AUTONOMIA SEGNÒ LA ROTTURA TRA GIALLI E VERDI

È la riforma della discordia e lo è sempre stata, all'interno di quasi tutti i singoli partiti di destra o di sinistra perché la linea di confine e separazione è geografica non ideologica e neppure politica. Se lo ricordano in pochi ma anche l'alleanza gialloverde, nel 2018, cominciò a traballare ben prima del Papeete e anche prima dello sgambetto di Conte al momento di eleggere Ursula von der Leyen proprio sul tema nevralgico dell'autonomia differenziata. Il quadro somigliava molto a quello attuale. Il M5S era un partito radicato molto più al sud che nel settentrione, proprio come FdI che ha rubato voti a valanga alla Lega nel nord ma le cui radici, almeno per ora, continuano ad affondare nel centro- sud. Dove per centro s'intende il meridionale Lazio, non la nordica Emilia.

Per Salvini l'autonomia differenziata era irrinunciabile persino quattro anni fa, quando la sua strategia prevedeva la conquista d'impeto del sud e i consensi sembrano garantirgli successo. Figurarsi ora, con la Lega costretta a leccarsi ferite profonde nelle ormai pericolanti roccaforti lombarda e veneta. Ma su quel fronte neppure il Capitano in quel momento trionfante con la sua Lega Italia poteva arretrare. Perché gli azionisti di maggioranza, lo zoccolo duro e l'insediamento non effimero del Carroccio restava il nord e i governatori del nord tutto potevano accettare e tutto accettavano dal capo purché sull'autonomia non si deflettesse di un centimetro.

La situazione oggi è identica. Il patto tra il leader e i pezzi da novanta che continuano a sostenerlo nonostante tutto passa per l'autonomia differenziata. Finché quella è in ballo e il ministro fa quadrato per imporla la Lega regge. Un passo indietro da quella trincea implicherebbe la deflagrazione. Ma se per il Carroccio, che è sempre rimasto nel suo nocciolo duro strettamente legato alle regioni e agli interessi settentrionali, lo schieramento è semplice, per gli altri partiti si tratta di ben diverso paio di maniche. Valga per tutti l'esempio del Pd. Viene da quel partito uno dei principali sostenitori della riforma iperfederalista, l'emiliano Bonaccini, e hanno la stessa tessera in tasca in suoi più fieri avversari, il campano De Luca e il pugliese Emiliano. Ma non è che le cose all'interno di Fi stiano messe in modo molto diverso. Quando la flotta azzurra trionfava il partito del Biscione era nordico, lombardo, quasi meneghino nel dna. Ora che la sopravvivenza del partito azzurro dipende in larga misura proprio dal sud le cose sono ben diverse. Di queste difficoltà nessuno è più consapevole di Roberto Calderoli. La scelta di portare di fronte alle Regioni il suo progetto di autonomia differenziata, salvo poi derubricarlo a «semplici appunti», e senza passare prima per il cdm, come da consuetudine, era dunque una consapevole fuga in avanti. Il ministro ha scelto di battere quella via evidentemente impraticabile probabilmente per due diverse ragioni. La prima è l'eterno cruccio e la perenne ansia di visibilità di un Carroccio ancora sotto shock per il sorpasso de tricolori, in particolare proprio nelle regioni del nord. Calderoli ci ha tenuto a chiarire subito chi difende gli interessi dell'area più ricca del Paese e chi invece è condannato a frenare. Da questo punto di vista e tenendo conto che dietro l'angolo c'è la prova lombarda, forse alla Lega le resistenze degli alleati di controdestra non sono dispiaciute troppo.

Il secondo motivo è più strategico.

Giorgia Meloni sa di dover pagare quel debito con la Lega, perché senza autonomia non ci sarebbe più la maggioranza. Ma vuole farlo all'interno di un progetto complessivo, abbinando presidenzialismo e autonomia, calmierando le forzature che andrebbero a eccessivo discapito del sud. Probabilmente anche la Lega sa che dovrà arretrare un po' ma con la mossa apparentemente goffa del ministro, che in queste cose però goffo non è mai davvero, ha fatto capire che un'autonomia forse non estrema ma neppure troppo annacquata è la condizione di sopravvivenza del governo.