C’era una volta la destra che, con una formula politica assai cinica, era esclusa dal cosiddetto “arco costituzionale”, vale a dire dal concerto delle forze politiche che avevano contribuito alla fine del fascismo e alla costruzione dello Stato democratico e repubblicano, attraverso la Costituzione. Ciò stava a significare, ad esempio, che un partito come il Msi, su cui ancora gravava l’eredità del Ventennio, sedeva legittimamente in Parlamento in virtù dei voti ricevuti dal proprio elettorato, ma era di fatto estromesso dal dibattito sulle questioni più rilevanti, su cui in genere viene coinvolta anche l'opposizione. Il concetto di “opposizione” parlamentare, così come comunemente lo intendiamo, non era calzante per gli esponenti della vecchia destra italiana, i quali non venivano interpellati su temi come le riforme, rifiutavano le liturgie e le celebrazioni legate alla rinascita della democrazia nel nostro paese, e men che mai potevano essere presi in considerazione per un appoggio al governo, con la drammatica eccezione di quello Tambroni, che proprio a causa dello stigma postfascista dovette morire prima di nascere tra cruenti moti di piazza.

Fa quindi sensazione vedere cosa sia diventata Atreju, la festa degli eredi di un partito che ancora fino alla metà degli anni ‘90 veniva considerato una sorta di paria della politica italiana e ora, oltre a detenere saldamente le redini del governo, domina l'agenda e orienta il dibattito a tutti i livelli, costringendo la sinistra a giocare di rimessa. La stessa sinistra che storicamente aveva fatto della festa politica un marchio di fabbrica, della dedizione cieca dei militanti che si spogliavano dei propri panni borghesi per andare a servire negli stand cuocendo le salsicce o spillando la birra, e che oggi assiste impotente al successo di una kermesse che solo un osservatore accecato dalla malafede potrebbe definire non riuscita.

L'edizione di quest’anno di Atreju, infatti, ha fatto segnare il pieno compimento di un’operazione che Giorgia Meloni e i suoi avevano da tempo in mente: fare di questa festa l’unico “mainstream” riconosciuto della politica italiana. Qualcuno, muovendo dalla presenza di Carlo Conti sul palco ha parlato di “Sanremo” della politica, e il paragone non è peregrino, perché in effetti nessuno, arrivando a Castel Sant’Angelo, potrebbe dirsi completamente spaesato dentro il villaggio di Atreju. Un villaggio che ha inaugurato una stagione di sincretismo politico e culturale, riuscendo nell'impresa di ospitare i leader di tutte le forze politiche (fatta eccezione come noto per Elly Schlein), di omaggiare contemporaneamente Pasolini ed Ernst Nolte, Al Bano e Guccini, Pupi Avati e Quentin Tarantino, o di applaudire Abu Mazen e un superstite agli attentati del 7 ottobre. E come non citare gli ammiccamenti e i siparietti tra avversari politici (in primis quello tra Matteo Renzi e Guido Crosetto), sui quali – ironia della sorte – un esponente della destra della seconda metà del secolo scorso come Giovannino Guareschi (che in un film si contrappose ideologicamente proprio a Pasolini) avrebbe certo ironizzato, ravvedendo i segni del consociativismo alla Peppone e Don Camillo. In questo fiorire di palchi e di iniziative, FdI comincia dunque a prendere la forma desiderata da Meloni e dal suo gruppo dirigente: quella di “un partito della Nazione”, un partito inclusivo, rassicurante, che mette a disposizione una gamma così vasta di riferimenti da non lasciare disorientato nessuno.

Il modello è abbastanza evidente: la Democrazia cristiana al culmine del suo potere, quella capacità di contenere tutto e il contrario di tutto, proprio come una balena, che non a caso rappresentava la metafora più riuscita nella sua definizione, mentre la sinistra rappresentava ancora un perimetro esclusivo, per aderire al quale era necessario un processo di conversione e adesione totale all'ideologia e ai suoi depositari. E infatti la vis polemica di Atreju Meloni l’ha riservata tutta alla “sinistra che rosica”, incarnata nel suo schema da Elly Schlein e da chi, assieme a lei, non ha voluto riconoscere la legittimità della metamorfosi di FdI, perseverando nell'esclusivismo snob. Nella comunicazione urlata e superficiale di oggi, forse anche un leader della Dc (nell'ipotesi distopica che lo scudo crociato fosse sopravissuto) avrebbe usato toni adeguati ai tempi, ma vedendo il trasporto con cui gente come Conte, Calenda, Bonelli si sono immersi nell’evento più “trending topic” degli ultimi giorni, si può dire compiuto il paradosso della forza che ha penato più di tutte per essere sdoganata e che ora è lei a sdoganare gli altri partiti.