Appuntamento a Budapest. Per chi ha ricevuto l’invito: ci si vede il 28 giugno nella piazza vietata, la piazza del Pride. La cartolina è formalmente indirizzata ai commissari europei, chiamati a tradurre l’allarme Ue sui diritti con la propria presenza. Ma di certo sono i benvenuti anche i governi dei 20 Paesi membri che ieri, nel corso del Consiglio europeo degli Affari generali, hanno sottoscritto una dichiarazione di denuncia contro la nuova stretta dell’Ungheria nei confronti della comunità Lgbtq+. Un vero e proprio avvertimento a Viktor Orban, che nel braccio di ferro con Bruxelles appare sempre più alle corde, ma anche un po’ meno solo.

Fino ad oggi Budapest poteva contare su Varsavia. Ma ora c’è anche l’Italia, l’unico tra i “grandi” Ue a non sottoscrivere l’ultimatum al leader magiaro. Che arriva da Francia, Germania e Paesi Bassi. Ma anche da Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. Il contesto è l’ottava audizione dell’Ungheria a Bruxelles nell’ambito della procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato, avviata dal Parlamento Europeo con proposta motivata del settembre 2018, quasi otto anni fa. È la cosiddetta opzione “nucleare”, ovvero la sospensione dei diritti di voto al Consiglio europeo. Per attivarla occorre l’unanimità dei 27, e questo spiega lo stallo. Ma il malcontento sempre più diffuso nei confronti delle politiche ungheresi potrebbe spingere l’Ue a trovare nuove strategie di “pressione”.

D’altronde, dice il ministro di Stato tedesco per l’Europa Gunther Krichbaum, con Orban si è «persa la pazienza». E il segnale è arrivato forte e chiaro proprio con quel documento con cui i 20 Stati Ue hanno condannato «i recenti emendamenti legislativi e costituzionali che violano i diritti fondamentali delle persone LGBTIQ+, adottati dal Parlamento ungherese il 18 marzo e il 14 aprile 2025 a seguito di altre normative anti-LGBTIQ+ già introdotte negli anni precedenti». Orban le ha definite “pulizie di primavera”: step normativi volti a cancellare il dissenso e a incardinare nella Costituzione i divieti contro la cosiddetta “propaganda gender”.

L’ispirazione, per così dire, proviene dalla Russia di Vladimir Putin, che per prima ha lanciato la crociata conservatrice volta a difendere i “valori tradizionali” dalla “deriva gender” dell’Occidente. Il tutto con il preteso di tutelare i bambini, come fa l’ultimo emendamento alla Costituzione ungherese approvato ad aprile per rafforzare la stretta del mese precedente. Quella norma vieta l’organizzazione o la partecipazione ad eventi che violano la controversa legge del Paese sulla “protezione dei minori”, che dal 2021 proibisce la “rappresentazione o promozione” dell’omosessualità ai minori di 18 anni attraverso contenuti televisivi, cinematografici, pubblicitari e letterari.

La stessa legge consente alle autorità di utilizzare strumenti di riconoscimento facciale per identificare persone che partecipano a eventi vietati, come il Budapest Pride, e prevede multe salate per organizzatori e partecipanti. «Siamo preoccupati per le implicazioni di queste misure sulla libertà di espressione, sul diritto di riunione pacifica e sul diritto alla privacy. Siamo profondamente allarmati da questi sviluppi che sono contrari ai valori fondamentali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, come stabilito dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea», si legge nella lettera dei 20. Che chiedono alla Commissione europea di «utilizzare rapidamente e appieno gli strumenti dello Stato di diritto a sua disposizione nel caso in cui queste misure non vengano riviste».

Non è chiaro, per ora, come intenderà agire la presidente Ursula von der Leyen, che secondo indiscrezioni di stampa (poi smentite) avrebbe raccomandato al suo team di commissari di evitare di partecipare al Pride non autorizzato per non «provocare» il governo ungherese. Di sicuro la Commissione sta «monitorando» la situazione, fa sapere il commissario europeo alla Giustizia Michael Mc Grath, che parlando al termine del Consiglio «non esclude alcuna via di azione» per contrastare la legge ungherese.

A rivolgersi direttamente a Von der Leyen è anche Alessandro Zan, eurodeputato del gruppo Pd-S&D, che in una lettera firmata da 60 europarlamentari invita la Commissione a partecipare al Budapest Pride, laddove rinunciare «significherebbe diventare complici dell’autoritarismo». «È importante che la Commissione si schieri dalla parte della libertà di manifestazione e assicuri una presenza ufficiale della Commissione», dice Zan. Anche se Von der Leyen, secondo fonti di stampa circolate negli ultimi giorni, temerebbe l’effetto opposto. Ovvero che Orban abbia gioco facile nel puntare il dito contro le “solite élite di Bruxelles” pronte a impartire lezioni morali ai cittadini che hanno ben altre preoccupazioni. Il ritornello politico è noto. Ora resta da capire chi avrà voglia di intonarlo insieme al premier ungherese.