Nel sito del Partito Radicale c'è un apposito spazio (www.amnistiaperlarepubblica.it), che è una specie di orologio: ogni giorno, con certosina precisione, censisce le adesioni alla marcia che avrà luogo domenica a Roma. Una marcia che parte dal carcere di Regina Coeli per approdare a piazza San Pietro; i promotori l'hanno voluta intitolare a Marco Pannella e a papa Francesco. Una data non è casuale, il 6: è il giorno dell'Anno Santo dedicato ai detenuti, e alla più generale comunità penitenziaria; una marcia per quelli che da anni sono i chiodi fissi del Partito Radicale: "l'amnistia, la giustizia e la libertà". All'iniziativa hanno aderito un nutrito numero di amministrazioni e consigli comunali (per non far torto a nessuno, mi limito a citare il sindaco di Bologna, Merola), enti, associazioni; e decine di singole personalità: c'è davvero di tutto, laici e credenti di tante religioni, politici, esponenti di quel mondo della cultura e dello spettacolo, professionisti delle più svariate professioni; e naturalmente tanti detenuti.C'è anche un digiuno in corso, da parte di alcuni dirigenti e militanti radicali, guidati da Rita Bernardini.Digiuno di dialogo, com'è prassi dei radicali, e di confronto, con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Sarebbe bello trovasse un momento per incontrare e ascoltare i digiunatori, le loro ragioni; questo ostinato battersi in favore dei diritti degli "ultimi". Per una ragione, se si vuole, meramente egoistica: se sono tutelati e garantiti i diritti degli "ultimi", lo saranno anche quelli di chi "ultimo" non è. Il "manifesto" della marcia, disegnato da Vincino, mostra un ancor vivo e rigoroso Pannella che sulle spalle reca papa Francesco, che inalbera un cartello con la scritta: "Amnistia". Diavolo e acqua santa, si sarebbe tentati di dire; se non che, a volerla mettere così, non si capirebbe bene chi è il demonio, chi è l'acqua benedetta: perché l'anticlericale per eccellenza, da sempre, si può dire che aveva appena dismesso i pantaloni corti, e già mostrava attenzione e sensibilità per le ragioni del mondo dei credenti; mentre all'attuale pontefice, ritenuto da non marginali ambienti vaticani un "comunista", non si risparmiano polemiche e accuse di "sovversivismo". Come sia, parte del mondo cattolico si è da tempo schierato: dalla Caritas al gruppo di Libera, dalle Acli alla comunità di Sant'Egidio e la Fondazione don Luigi Di Liegro; e una quantità di "don": Luigi Ciotti, Antonio Mazzi, Albino Bizzotto dei "Beati costruttori di pace", tantissimi cappellani penitenziari. Non solo adesioni individuali: don Ivan Maffeis, portavoce della Conferenza episcopale italiana, intervistato da Radio Radicale, dice: «La Cei guarda con attenzione a questa iniziativa e come segreteria generale della Cei si dà una convinta adesione a l'iniziativa specifica in sé è vista, da parte nostra, come un'occasione proprio per sensibilizzare l'opinione pubblica e, più in generale, anche il mondo politico sulla situazione in cui il nostro sistema penitenziario versa. L'augurio, e insieme all'augurio vogliamo metterci anche l'impegno, è che ci sia un'accoglienza delle istanze portate avanti proprio per superare il degrado in cui i detenuti ma non solo i detenuti, penso agli agenti, penso ai volontari e agli educatori, oggi si muovono». E dalle pagine di Avvenire, il giornale della Cei si è avviato un interessante e significativo "dialogo" tra il direttore del quotidiano e gli esponenti radicali.Si levano voci anche da sinistra. Non poche, neppure tante, però. Pesco qualche nome: Ileana Argentin, Guido Calvi, Vannino Chiti, Furio Colombo, Luigi Manconi, Valter Verini; e ancora: Luigi Ferrajoli, Giuseppe Giulietti, Aldo Masullo, Sergio Staino? E dire che è cosa che dovrebbe vedere mobilitata in prima persona proprio la sinistra; o almeno quella sinistra che ci si ostina a credere esista da qualche parte: quella animata da spirito liberale e libertario, rispettosamente laica, laicamente rispettosa. Si dice che l'amnistia di per sé non risolve il problema della grave crisi in cui da sempre, si può dire, si dibatte la giustizia in Italia; chi lo dice, ha ragione. E' una misura strutturale, ma non risolutiva, "solo" per far tornare il sistema carcerario e quello giudiziario nella legalità; ma contemporaneamente bisogna procedere alle riforme necessarie. E' un percorso che possiamo leggere sulle pagine ormai ingiallite di una Unità dell'11 agosto del 2011: Un passaggio che val la pena di rileggere: «Era così anche ai tempi del divorzio: i più prudenti suggerivano di accontentarsi del divorzio per i matrimoni civili, che allora erano l'1,8 per cento; noi invece abbiamo fatto in modo che sul divorzio fossero coinvolti tutti, famiglia per famiglia, a prendere posizione. E così deve accadere ora sulla condizione carceraria. Su carceri e amnistia dobbiamo far partire un grande dibattito nel paese». Lo scriveva Marco Pannella; valeva allora, vale oggi.C'è poi la specifica situazione delle carceri. Nonostante l'indubbia buona volontà del ministro Orlando, del Dap, della stragrande maggioranza dei direttori delle carceri, degli agenti di custodia, volontari ecc., la situazione è sempre disastrosa. E valga per tutto, quello che denuncia il presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe), Luciano Lucania. Ci spiega che a causa delle celle affollate e strutture di cura che non funzionano, le carceri italiane sono diventati moltiplicatori di patologie. Non solo non si guarisce, si contraggono malattie anche gravi: «Dietro le sbarre, c'è in gioco anche la salute dei detenuti. Alla società viene restituita in molti casi una persona malata. Tra il 60 e l'80 per cento delle persone recluse oggi in Italia soffre di una malattia. In quasi un caso su due si tratta di patologie infettive, mentre tre detenuti su quattro (circa 42 mila) soffrono di disturbi psichiatrici». Secondo i dati della Simspe, dei quasi 100 mila detenuti transitati negli istituti italiani nel 2015, 5mila sono positivi all'HIV, 25mila hanno l'epatite C e 6.500 l'epatite B. Ma si tratta solo di stime, perché circa la metà dei detenuti non sa di essere malato. Tra celle affollate, cure e strutture non sempre all'altezza e stili di vita non adeguati, i contagi sono più frequenti che altrove. La tubercolosi, ad esempio, che colpisce molti stranieri, in carcere si contrae dalle 25 alle 40 volte in più: «Dal 2008 l'assistenza sanitaria penitenziaria è passata dal ministero della Giustizia alle regioni», spiega Lucania. «Ma la fase di passaggio non si è ancora conclusa». Così, tra competenze in conflitto e diversi inquadramenti contrattuali, il risultato è che oggi non esistono ancora dipartimenti strutturati per la salute penitenziaria nei sistemi sanitari regionali. Tanto meno si sa quanti siano i medici che lavorano in carcere.Da anni si parla dell'istituzione di un osservatorio epidemiologico. Ogni regione dovrebbe fare il suo, per poi unire i dati a livello nazionale, in modo da prevenire i contagi. Finora lo hanno fatto solo Toscana ed Emilia Romagna. «Alcuni istituti hanno grandi spazi dedicati alla salute, altri solo piccole aree», dice Lucania. «Ma non sappiamo in che stato siano davvero gli ambulatori di sezione e che attività ispettiva venga fatta in questi luoghi».Ancora: in alcune regioni si fanno gli screening, in altre no. In certi casi i detenuti tossicodipendenti (il 30 per cento) vengono seguiti, in altri no. Tra promiscuità sessuale, tatuaggi fai-da-te e violenze, le malattie infettive proliferano.Ecco: sul provvedimento proposto dai radicali, ovviamente, le opinioni possono essere le più diverse. Ma si può, credo, tutti convenire sulla necessità e l'opportunità di questo grande dibattito, di questa collettiva riflessione. Magari a partire da quelle ormai lontane parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II, quando intervenne a Montecitorio, davanti alle Camere riunite, accolto da unanime, scrosciante applauso; e a seguire dagli appelli dell'attuale pontefice, e dal messaggio ? l'unico ? che il presidente emerito Giorgio Napolitano ha rivolto alle Camere, quand'era l'effettivo inquilino del Quirinale.La Marcia di domenica, e il digiuno di dialogo e speranza di Bernardini e gli altri, è questo che chiedono e sollecitano. Perché ognuno di noi vinca la propria ignavia, indifferenza, sfiducia; non "solo" si nutra speranza, ma si sappia, e soprattutto si voglia essere "speranza". E ora, compagni dentro e fuori del Partito Democratico: cosa aspettate a spezzare il pane con i radicali, come già fanno significative "quote" di mondo cattolico?