Con Giorgia Meloni e il suo governo di destra l'arcigna Europa mostra sid dal primo giorno il suo volto più compiacente e continua a farlo. Con nessun altro governo precedente, escluso quello di Mario Draghi, Bruxelles era apparsa tanto ben diposta e affabile. Basti pensare a quale sarebbe stata la situazione se a bloccare la riforma del Mes già approvata da tutti gli altri Paesi dell'Unione fossero stato il governo gialloverde di Giuseppe Conte ma anche quello di Matteo Renzi, per non parlare di Silvio Berlusconi.

Lo sblocco della quarta rata del Recovery di quest'anno era in realtà prevedibile. Lo erano molto di meno i toni di calorosa approvazione e i complimenti nei quali hanno largheggiato sia la presidente della Commissione von der Leyen che i suoi vice, Gentiloni e persino il falco per eccellenza, Dombrovskis. Non lo era neppure l'approvazione senza ulteriori raccomandazioni delle 11 modifiche chieste dall'Italia.

La settimana precedente la Commissione aveva approvato ben 145 modifiche apportate al Piano nel suo complesso, quasi una riscrittura, e un semaforo tanto verde non era invece affatto prevedibile. In quel caso, però, la Commissione aveva avanzato, sia pure con lo stile felpato proprio delle istituzioni europee, due richieste precise: accelerare la riforma della giustizia in particolare civile e soprattutto le liberalizzazioni. Stavolta neppure quella piccola ombra grava sul successo del governo.

Le motivazioni di tanta affabilità sono diverse e numerose. Certamente pesa lo schieramento netto della premier a fianco degli Usa e della Nato nella guerra ucraina: la chiave che Meloni ha adoperato per imporre un'immagine del suo governo affidabile è stata certamente quella che però, di per sé, non sarebbe bastata. Incide di più la disciplina con la quale, a sorpresa, un governo partito con le bandiere sovraniste al vento ha accettato in buon ordine i vincoli di bilancio che la Ue contano più di ogni altra cosa. Il quadro complessivo aiuta la premier: l'onda del sovranismo radicale non è affatto rifluita, né in Europa né in tutto l'occidente e contro quell'onda proprio la battagliera leader della destra è riuscita a imporsi come garanzia e baluardo. Infine gioca un ruolo rilevante e forse decisivo l'approssimarsi delle elezioni europee.

È possibile e anzi probabile che dopo quella prova il sostegno della leader dei Conservatori e del suo gruppo si riveli essenziale. Se la somma di questi elementi, che sin qui ha offerto alla presidente del consiglio uno scudo quasi magico, basterà anche a strappare concessioni non solo di facciata nella partita fondamentale, quella sulle nuove regole del Patto di Stabilità, non è affatto detto.

Ma non è neppure del tutto escluso e del resto basterà aspettare qualche giorno, fino al vertice Ecofin dell' 8 dicembre e al summit eccezionale convocato per la notte precedente, per sincerarsene. La magnanimità europea ha i suoi prezzi. Il primo, esplicitato al momento di dare il via libera al “nuovo” Pnn, riguarda le liberalizzazioni. La decisione di non prorogare le tutele sul mercato dell'energia era in realtà inevitabile. La norma era stata approvata nel 2022, tra l'altro col voto del Pd e della Lega che oggi protestano e non con quello di FdI.

Prorogare le tutele, all'indomani del via libera europeo sul Pnrr ma con la raccomandazione di spingere il pedale a tavoletta sulle liberalizzazioni, alla vigilia di una decisione per l'Italia di vitale importanza come il nuovo Patto, sarebbe stato suicida. La strada delle liberalizzioni è segnata. Il governo, entro la fine dell'anno, dovrà probabilmente acconciarsi a firmare sia la riforma del Patto che quella del Mes. Forse in cambio di concessioni reali, oppure fingendo che quelle concessioni ci siano: in caso contrario la tensione tra Roma e Bruxelles s'impennerà di colpo. Il vero conto potrebbe però essere presentato dopo il voto del 9 giugno e per Meloni potrebbe essere salato, sino alla “proposta indecente” di entrare in una maggioranza Ursula allargata.

Ma il vero campo di battaglia sarà un altro. La Commissione ha acconsentito a tutte le modifiche chieste da Roma, alcuni degli obiettivi più ostici saranno spostati nei fondi e progetti paralleli. Ma gli obiettivi del Pnrr, senza esclusione, devono a questo punto essere completati entro la data già fissata, il 2026, e non sarà affatto facile.