Resa dei conti doveva essere; resa dei conti è stata: Renzi e Bersani, adieu.Armati della tafazziana bottiglia di plastica, ci si può addentrare nella selva delle regioni e dei torti per decidere a chi assegnare la prima (Matteo?) e a chi invece addossare i secondi (la sinistra dem? O è viceversa?). Esercizio complicatissimo e, tutto sommato, velleitario nel senso che in entrambi gli schieramenti mai nessuno ammetterà pubblicamente di aver sbagliato. Ma ancor di più esercizio che minaccia di risultare inutile. Perché la cosa davvero importante da appurare è se il risultato della Direzione segni la fine del decennio breve del Pd: agglomerato nato di fatto il 14 ottobre 2007 con le primarie dei tre milioni di votanti che segnarono il trionfo di Walter Veltroni (76 per cento di preferenze); e poi altrettanto di fatto smembratosi ieri, con le opposizioni interne che hanno voltato le spalle al segretario-premier sancendo una frattura che allo stato non è agevole comprendere come possa rimarginarsi.Iperboli? Esagerazioni? Forse. Tuttavia ci sono alcuni elementi che inducono a riflessioni non proprio tranquillizzanti. Il primo è che finora nessuno dei referendum costituzionali (ultimo quello sulle modifiche proposte dal centrodestra nel 2006: i No prevalsero con il 61,3 per cento) aveva provocato una spaccatura così netta all'interno di un singolo partito. E lo stesso succede se si allarga lo sguardo alle altre 67 consultazioni referendarie finora svolte, quelle abrogative di singole leggi. Non fu così nel 1974 sul divorzio; né per il referendum del 1985 sulla contingenza voluto da Bettino Craxi premier che spaccò sì, ma la Cgil e non il Pci (che però fu sconfitto). Nè infine su quello per la riduzione delle preferenze da tre a una sola del 1991 voluto da Mario Segni: in quel caso i Sì addirittura sfondarono il muro del 90 per cento. Forse l'unico precedente di spaccatura verticale dentro un partito - ma il referendum non c'entra - fu quando nel sesto governo Andreotti cinque ministri della sinistra dc (Sergio Mattarella, Mino Martinazzoli, Riccardo Misasi, Calogero Mannino e Carlo Fracanzani) si dimisero per non votare la fiducia al decreto Mammì che autorizzava la diretta alla tv private di Berlusconi. Il Divo Giulio non si scompose: andò in Parlamento, incassò la fiducia, sostituì i cinque ribelli e continuò per la sua strada.Alle strette: è vero che nessun referendum ha avuto una posta in palio, politica ed istituzionale, rilevante come quello del 4 dicembre prossimo. Ma proprio questo rende ancor più abrasiva la lacerazione in seno al Pd. E la domanda non può che essere se e quanto sia recuperabile.Il dato più eclatante è che all'appuntamento più rilevante della legislatura il Pd, che era e resta il partito architrave del sistema politico, arriva definitivamente divaricato. Le scaramucce dei mesi scorsi hanno lasciato sul terreno una scia di strumentalità: per dialogare, infatti, bisogna essere in due e la realtà è che nessuno - Renzi per un verso, la minoranza per l'altro - si sono mai sforzati, nè hanno mai voluto costruire per davvero un ponte di possibile intesa. Piuttosto un muro: di incomprensioni, di rancori, di rivalità. E' abbastanza difficile immaginare che in una simile condizione una forza politica possa marciare unitariamente nella stessa direzione. E infatti. Qualunque sia il risultato delle urne, il Pd non potrà più essere lo stesso. Se vince il Sì, i margini di manovra della leadership renziana si allargheranno fino a tracimare, ripempiendo tutti gli spazi di azione politica. Roberto Speranza, bersaniano, dice che la sinistra interna non farà mai la scissione: però l'agibilità politica dentro al Nazareno per forza di cose diventerà ancor più residuale e la sirena dell'abbandono suonerà stentorea neanche fosse l'Olifante del paladino Orlando (in questo caso con indosso i panni di Massimo D'Alema). Per l'ex segretario ed ex ministro dello Sviluppo nonché per i suoi seguaci, sottrarsi sarà impervio.Se invece vince il No, l'intero edificio piddino e non solo la casupola della minoranza interna, ne verrà squassato. Il colpo nei riguardi dell'attuale leadership di partito e di governo sarebbe devastante: la costruzione immaginata appunto nove anni fa verrebbe lesionata nelle fondamenta, e le perplessità espresse negli anni scorsi per la "fusione fredda" tra lo spezzone maggioritario della Dc e quello dell'ex Pci rischierebbero di impallidire di fronte alle criticità attuali. Addirittura c'è chi vaticina che pur vincendo, magari di misura, la consultazione popolare, per Renzi il futuro potrebbe comunque risultare pieno di incognite. Se infatti il 4 dicembre può funzionare a suo favore sventolare il pericolo del salto nel buio, della confusione derivante da una vittoria del No sorretta da una compagine che si cementa unicamente nel "contro", non lo stesso sarebbe in caso di elezioni politiche nazionali. E l'inquilino di palazzo Chigi finirebbe per vedersi annoverato nella sequela di Commander in chief capaci di vincere battaglie anche decisive ma che poi perdono la guerra.I più longevi ricordano il modello Fanfani, che giostrava con le regole del sistema politico in modo rigido, non inclusivo: tanto potere, molti avversari, nessuna concessione. certo non a caso, Arnaldo Forlani ha definito Renzi «un nipotino di Fanfani». Amintore riuscì a mettersi sul petto le mostrine non di un doppio bensì addirittura di un triplo incarico: segretario di partito, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri contemporaneamente. Su quelle tre poltrone resistette sette mesi. Matteo, con solo due però, lo ha già ampiamente superato: «Ma non accetterò di passere i prossimi anni a discutere su chi ha ucciso il Pd», avverte. Molto chiaro.