Direzione Pd. Renzi: hic manebimus optime, sto benissimo dove sto. Fine della Direzione. E’ la politica 2.0; o, se si preferisce, la sua prosecuzione con altri mezzi. E se qualcuno cerca una storia, una narrazione, vada al cinema. Magari a vedere il film di Kennet Loach “il rosso” su Eric Cantona, il campione di calcio del Manchester United che al gol (che pure faceva, e molti bellissimi) preferiva l’assist. Come il premier. Con una differenza però: che Matteo l’assist gradisce farlo a sé stesso.La cosa più importante dell’intervento di ieri del presidente del Consiglio nonché segretario Democratico non sta in quello che ha detto bensì in quello che non ha detto: neanche una parola, neppure un accenno di sfuggita sulla riforma elettorale. Per chi si aspettava aperture o anche semplicemente spiragli, una bella doccia gelata. Questo significa una cosa semplice: che il solco entro cui si svolgerà l’azione politica di palazzo Chigi nelle prossime settimane fino al referendum costituzionale non cambia, sarà quello già visto da due anni e mezzo a questa parte: Renzi vs il Resto del Mondo e vediamo come finisce. A viso aperto e senza paura: «Perchè chi ha paura - è il refrain del premier - non può fare politica, faccia altro». E se a ottobre vince il No? Ipotesi sciagurata che non va presa in considerazione. Piuttosto il Pd la smetta di fornire l’immagine di un partito perennemente diviso. Basta sparare sul quartier generale; meglio rimboccarsi le maniche, costituire migliaia di comitati per il Sì, spiegare nel merito la riforma e l’oggetto del quesito referendario. Così la vittoria arriva, tranquilli. Se qualche menagramo (Renzi stavolta non ha pronunciato la parola gufi, e neanche rosiconi) insiste, beh sappia che ne tirerò le conguenze. Vuol dire dimissioni come ho promesso: e non solo mie, di tutto il Parlamento. Un auspicio, visto che la prerogativa di sciogliere le Camere spetta (ancora) al capo dello Stato e che se vince il No votare è complicato visto che ci sarebbero due leggi elettorali diverse per i due rami del Parlamento, praticamente un’autostrada verso l’ingovernabilità.Poco importa, adesso non c’è spazio per tentennamenti. La road map verso le urne è tracciata, con tanto di traguardi intermedi: il vertice Ue, la festa dell’Unità, il G7. Qualcuno non è d’accordo? Bene, è in questo passaggio che il presidente del Consiglio imbraccia quel lanciafiamme che aveva annunciato: chi ha idee diverse convochi il Congresso e mi sfiduci: beninteso se trova i voti. Idem per la separazione tra l’incarico di capo del governo e leader del Pd: «Per farlo, bisogna modificare lo Statuto. Provateci, sempre se ci sono i voti».Insomma alla o alle minoranze interne, Renzi non concede nulla. Come nulla concede agli alleati di governo. C’è solo un itinerario che può essere seguito, ed è quell tracciato nell’agenda dell’azione di governo: dal job act («E 500 mila posti in più sono 500 mila problemi in meno») alla legge sulle Unioni civili, al provvedimento sul Terzo settore, alle disposizioni contenute nel Dopo di Noi. Tutti grani di un rosario marcato a sinistra: altro che pencolamenti moderati. Idem su Europa, flessibilità, immigrazione: sta tutto lì, sul sito del governo. Chi ha lacune di memoria, le può facilmente colmare.Ecco, il perimetro entro cui si muove Renzi è ben delineato: chi si aspetta qualcosa di diverso, sembra voler dire il premier, è fuori strada. Il messaggio spedito all’universo degli interlocutori politici è semplice: non c’è nulla da modificare e non c’è alcuna necessità di invocare maggiore attenzione alla lotta alla povertà perché tante cose sono state fatte e sarebbe meglio mostrarsene orgogliosi invece di criticare. Il referendum è l’occasione per confermare che la classe dirigente italiana è capace di autoriformarsi e possa in tal modo riacquistare le perdute autorevolezza e credibilità. Se qualcuno non lo capisce e gioca «a fare il conte Ugolino» non fa il bene né suo né del Pd.Se lo spartito è chiaro, la domanda è conseguente: quella così ben definita e così priva di chiaroscuri è la strategia giusta per prevalere nelle urne di ottobre? Forse. O forse no, ma il punto non è più questo, nel senso che si tratta di un questito che solo i numeri elettorali potranno sciogliere. Il punto politico sta nel fatto che il capo del governo non è disposto a mettere sul tappeto altro di ciò che ha già collocato, non ritiene esistano i margini nè la convenienza per intavolare un purchessia confronto o dialogo con i suoi critici, dentro e fuori al partito. Il che significa che Renzi vuole andare avanti come ha fatto finora anche a costo di ritrovarsi solo contro tutti. E magari è proprio quello che cerca. Con qualche ragione, si potrebbe obiettare che, pur senza volersi arruolare nella falange dei “benaltristi” - categoria subdola composta da quelli mai soddisfatti perchè si può sempre fare di più e di meglio - è singolare che un ruolino di marcia dove le luci prevalgono alla grande sulle ombre provochi un arretramento nei voti per il Pd, un’emorragia di consensi che, salvo l’ormai leggendario e non si capisce più quanto ripetibile exploit del 41 per cento alle Europee, non conosce freni. Che pur avendo mantenuto Milano e Bologna, ritrovarsi estromessi dal governo di città importantissime come Torino, Napoli e soprattutto Roma, non può essere una casualità. E che aver vinto nella provincia napoletana sette ballottaggi su otto ma non essere in partita da dieci anni per il capoluogo, non è bilancio propriamente esaltante.Ormai però sia il bolide renziano che quello dove sono intruppati i suoi avversari al completo sono lanciati a tutta velocità verso il traguardo: nessuno spingerà il pedale del freno, neppure in vista dell’ultima curva. Per il Pd, la partita è quella finale. Se Renzi vince, regolerà una volta per tutte i conti interni. Se perde, lascerà - è vero - una forza politica ancora contendibile. Ma anche tanta terra bruciata intorno.