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Il politologo Marco Tarchi
Il politologo Marco Tarchi giudica la personalizzazione del voto europeo messa in campo da Giorgia Meloni come «l’accelerazione di una strategia messa in campo da anni» e spiega che Salvini, «se scendesse sotto l’ 8%, e sotto Forza Italia, rischierebbe».
Professor Tarchi, in vista delle europee i partiti hanno chiuso le liste e depositato i simboli. vede possibili degli stravolgimenti post voto rispetto alle dinamiche politiche nazionali?
Al momento, sostanziosi scostamenti dalle previsioni mi sembrano improbabili. La situazione è ingessata: alternative al governo in carica non se ne vedono; sulle questioni internazionali prevale l’allineamento generalizzato alle posizioni dettate dall’alleato d’oltreoceano; il panorama socio- economico non è esaltante ma neppure catastrofico. la routine non favorisce sbalzi.
Giorgia Meloni ha molto personalizzato questo inizio di campagna elettorale, chiedendo di farsi votare come “Giorgia” e cercando il contatto diretto con l’elettorato: pensa possa essere una mossa vincente per la premier?
È solo l’accelerazione di una strategia messa in campo da anni e su cui meloni punta assiduamente, usando quasi sempre l’ «io» al posto del «noi» anche quando parla dell’azione del governo e cercando di avvalersi, per rendere ancora più efficace questa iper- personalizzazione, anche della sua avversaria ideale. il suo obiettivo è focalizzare lo scontro politico attorno al contrasto diretto di idee e personalità con Elly Schlein, perché la distanza fra i due personaggi è talmente evidente da indurre buona parte dell’elettorato a collocarsi “o di qua o di là”. E da favorire il compattamento dei potenziali simpatizzanti – o, se si preferisce, di tutti coloro che non hanno in simpatia la rivale. Inoltre, favorendo la totale identificazione del partito con il suo nome e il suo volto, meloni cerca di evitare la nascita, all’interno di FdI, di qualsiasi corrente. Non va dimenticato che la storia dei precedenti “partiti della fiamma” è sempre stata contraddistinta dal culto del capo.
In passato già Renzi e Salvini vissero con le Europee il momento di maggior successo politico, per poi assistere a una lunga fase di declino: rischia una parabola simile anche a Meloni?
Solo se compirà lo stesso errore dei due personaggi citati, ovvero una sopravvalutazione delle proprie forze tale da spingere a voler strafare. Ma non vedo grandi analogie fra il modo arrogante con cui Renzi cercò di imporre sistemi elettorali e riforme costituzionali e l’accorta gradualità che sta accompagnando l’iter parlamentare dei progetti di autonomia differenziata e premierato.
Nel centrodestra ci sarà da verificare la sfida tra Forza Italia e Lega, con Tajani direttamente in campo e Salvini che ha preferito non candidarsi: crede possibile il sorpasso degli azzurri sul Carroccio?
I sondaggi sembrano darlo quasi per certo, ma non è da escludere un recupero di consensi a destra da parte della Lega che potrebbe scongiurare questo scenario. In ogni caso, Forza Italia banchetta sugli avanzi del fallito progetto centrista di Renzi e Calenda e regge meglio del previsto alla morte di Berlusconi. Ma dipende più dalle mosse altrui – cioè delle altre formazioni centriste – che da se stessa.
In caso di débâcle, Salvini rischia il posto nel congresso d’autunno o pensa che i dirigenti del partito non abbiano la stessa forza politica per spodestarlo?
Questo dipende essenzialmente dall’entità del previsto insuccesso elettorale. Se scendesse sotto l’ 8%, e sotto Forza Italia, rischierebbe. Anche se non è chiaro quali strategie alternative possano mettere in campo i suoi critici: ritornare a fare il “sindacato del nord” in una condizione molto diversa da quella di trent’anni fa porterebbe a rinchiudersi in una nicchia e ad avere un potere contrattuale nei confronti degli alleati ancora minore di quello attuale.
La Lega è uno dei partiti che gioca molto sul fattore esterno, candidando il generale Vannacci, come fa Avs con Ilaria Salis: quanto contano le candidature non politiche alle Europee?
Abitualmente, poco o niente: attirano preferenze degli elettori già convinti di votare per quella lista, ma non nuovi consensi. Però i due personaggi che cita qualche effetto potrebbero, questa volta, averlo. Vannacci perché, con il suo attacco a testa bassa al politicamente corretto potrebbe indurre un certo numero di sostenitori di Fratelli d’Italia poco convinti della svolta moderata di Meloni ad inviarle un segnale di avvertimento ( e probabilmente è per parare questo rischio che la presidente del Consiglio ha rispolverato alla recente conferenza programmatica di Pescara toni fortemente nazional- populisti). Salis perché potrebbe spingere ad andare alle urne qualche decina di migliaia di abituali astensionisti della sinistra più estrema, per i quali rispolverare gli echi del vecchio slogan «uccidere un fascista non è un reato» è un motivo di richiamo.
A proposito di sinistra, Schlein si è candidata “a metà”, correndo in sole due circoscrizioni e non mettendo il nome nel simbolo dopo la rivolta interna: saranno elezioni spartiacque per il Pd e per il rapporto con i 5S?
Anche in questo caso ci andrei cauto. Certo, se il risultato del Pd fosse sotto il 20% i malumori e i mugugni potrebbero emergere più apertamente e il già non facile cammino della segretaria sarebbe più accidentato, ma almeno nell’immediato futuro non mi sembra realistico ipotizzare che possa essere disarcionata. Inoltre, stando ai sondaggi il temutissimo sorpasso dei Cinque Stelle non ci sarà e quindi proseguirà il duello per stabilire a chi dovrebbe toccare la guida del peraltro tuttora incerto “campo largo”. Piuttosto, sarà interessante vedere come se la caverà il MSS in questa sua nuova veste progressista. La accetteranno i suoi molti elettori tutt’altro che progressisti dell’era grillina che, nonostante le ripetute virate, fin qui si erano mantenuti fedeli al nome e al simbolo? Alle urne il responso.