«Serve senso del limite. Serve ai magistrati ma anche alla politica. Magistratura e politica scontano a volte il vizio dell’onnipotenza. Che non nasce dai difetti dei singoli ma da un problema culturale. Ecco, mi aspetterei che le correnti della magistratura riflettessero su questo. Un tempo avevano grande capacità di offrire contributi culturali di carattere strategico proprio sulla funzione costituzionale del giudice, sui limiti e sui poteri. Mi pare che la magistratura, da parecchio tempo, non approfondisca il tema dei limiti della giurisdizione in un sistema fondato sulla separazione dei poteri. Anche alla luce delle indagini sul covid, può essere utile un ritorno a quella capacità di analisi».

Luciano Violante potrebbe approfittarne. E forse nell’intervistarlo lo si potrebbe compulsare perché inondi di critiche severissime i pm di Bergamo, che hanno chiuso le indagini sul covid con ipotesi di epidemia colposa a carico di un premier, Conte, di un ex ministro della Salute, Speranza, di assessori regionali e svariati consulenti scientifici di tali autorità. Violante potrebbe infierire, forse, ma non lo fa. Almeno l’ex presidente della Camera sembra in grado di contenersi in quel senso del limite che esorta a ritrovare.

Cosa le è venuto in mente quando ha saputo dell’indagine di Bergamo?

Non credo interessi cosa io pensi, ma una cosa si può dire: le inchieste giudiziarie non andrebbero condotte col senno di poi. Non si può valutare con lo spirito di oggi quanto accaduto allora.

Si riferisce alle caratteristiche del virus?

Mi riferisco alla condizione generale del 2020: decisori stretti fra chi invocava la chiusura di tutto e chi denunciava indebite compressioni della libertà, la chiusura delle fabbriche e il blocco dei commerci, con gli interventi dell’Ue ancora lontani. Negli altri Paesi, la stessa drammatica situazione e la stessa incertezza sulle risposte. C’è un altro rischio, oltre a quello di guardare al passato con le consapevolezze del presente.

Quale?

L’idea di dover assecondare l’opinione pubblica. È giusto ascoltare le istanze delle vittime, ma poi la magistratura giudica non in forza delle istanze, ma sulla base della legge. Non può trasformarsi in una commissione d’inchiesta.

È il rischio che vede dietro l’indagine di Bergamo e in quella ora trasferita alla Procura di Roma?

Dico che ci sono due tipi di indagine. La ricostruzione storica spetta all’autorità politica, che può istituire appunto commissioni d’inchiesta. All’autorità giudiziaria compete la verifica delle responsabilità penali, secondo le regole, non secondo le istanze delle vittime alle quali, ripeto devono rispondere le istituzioni politiche.

In Italia abbiamo il mito del maxiprocesso, la tentazione di replicare l’irripetibile modello di Falcone e avviare percorsi giudiziari con troppi indagati o, come per il covid, con un numero immane di vittime?

Il processo di massa è difficile da gestire, può essere animato dalla tentazione dell’onnipotenza, che però può riguardare anche la politica. Il conflitto diventa micidiale quando nessuno dei due poteri riconosce i propri limiti.

Un vizio tutto italiano?

Non direi che la sindrome da onnipotenza sia stata inventata qui: il nodo dell’equilibrio fra poteri e la presunzione politica di onnipotenza investono ora Israele con Netanyahu, l’Ungheria con Orban, ma ci sono problemi in Polonia, nella Repubblica Ceca.

A Bergamo i pm peccano di onnipotenza?

Rispetto quei magistrati. Le loro indagini implicano valutazioni difficili, innanzitutto la distinzione fra ciò che le autorità politiche potevano prevedere e cosa invece era imprevedibile. Ma vede, siamo davanti a un paradigma ricorrente: la giustizia di transizione.

Di cosa si tratta?

Quando si passa da una fase storica a quella successiva e si pretende di giudicare il vecchio con il nuovo. Lo puoi fare solo in casi estremi: nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, dal nazismo alla democrazia, per esempio.

Sul covid rischiamo di ripetere l’errore compiuto con la trattativa Stato-mafia?

A Bergamo ci si è trovati di fronte a denunce e andava comunque presa una decisione: archiviare o indagare. Poi c’è una responsabilità della comunicazione: parte dell’opinione pubblica immagina già i ministri in carcere. E invece ci sono solo ipotesi d’accusa.

Ci sono anche costi notevoli: c’è proporzione fra le risorse investite nell’inchiesta sul covid e i risultati che potrebbero derivarne?

C’è il drammatico numero dei morti, ci furono i camion carichi di bare. C’è da indagare, certo. Con la riservatezza necessaria.

Ha ricordato l’eccesso di aspettativa fra i cittadini: sono indagini che alimentano aspettative esagerate a lasciare troppo esposti giudici come quello di Rigopiano, quasi linciato mentre leggeva la sentenza?

Certo, c’è un altro aspetto, che riguarda il principio di responsabilità. Mi spiego con un esempio: il caso Stamina, quella poltiglia preparata da un soggetto poi condannato per frode, che era riuscito a ottenere una convenzione con gli Ospedali Riuniti di Brescia. Venne emanato un decreto legge in base al quale solo chi aveva già iniziato la terapia avrebbe potuto proseguirla. Ma arrivarono molti ricorsi, e l’autorità giudiziaria in molti casi disapplicò il decreto e stabili che la cura poteva essere somministrata anche a chi non aveva già iniziato a seguirla.

Era appunto una poltiglia.

Immagini se la stessa decisione fosse stata presa dagli assessori alla Salute: si sarebbero trovati tra la Corte dei Conti per il danno erariale e la Procura della Repubblica per l’abuso d’ufficio. Si tratta di casi di onnipotenza: si è violata la legge senza che alcuno sia stato chiamato a pagare il costo della violazione.

E scusi, presidente, ma allora le blande forme di controllo sull’operato dei giudici introdotte con la riforma Cartabia, come il fascicolo di valutazione, sono acqua fresca? Servirebbero ben altre sanzioni dissuasive?

Faccio il giurista da più di mezzo secolo e, me lo lasci dire, ho maturato una certa diffidenza per l’eccesso di regole.

A cosa si riferisce?

Se pensiamo che il modo giusto per frenare un comportamento sbagliato sia una nuova punizione, non ne usciamo. Il discorso dell’onnipotenza, della magistratura e della politica, si affronta sul piano culturale.

In proposito qualcosa sembra muoversi anche nell’Anm.

Serve una seria discussione sui limiti della funzione giudiziaria. Un tempo le correnti investivano grandi energie in questo. Tornino a farlo: sono già state capaci recentemente di aprire dibattiti importanti, per esempio sull’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme. L’onnipotenza del giudice è un rischio per qualsiasi democrazia e per la stessa magistratura. Ma va affrontato sul piano culturale. Non ci sono alternative credibili.