Santi Consolo è da pochi giorni il nuovo Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti in Sicilia. Una personalità dall’alto profilo e dalla lunga esperienza. Consolo è stato Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia e ha svolto le funzioni di procuratore generale presso la Corte d'Appello a Caltanissetta e a Catanzaro. Ha, inoltre, fatto parte del Csm come componente togato.

Dottor Consolo, quali sono le problematiche che si appresta ad affrontare nel suo nuovo ruolo in Sicilia?

Io ho un ricordo di come erano gli istituti penitenziari fino al 2018. Gli aggiornamenti li apprendo soprattutto dalla stampa. Il mio nuovo ruolo mi porta a guardare le problematiche da una prospettiva diversa anche se la materia è la stessa di quando ero a capo del Dap. Il mio atteggiamento sarà di maggiore dialogo e disponibilità, innanzitutto con gli appartenenti alla amministrazione penitenziaria, con gli agenti di polizia penitenziaria, con i direttori, con gli educatori e con quanti, anche nel volontariato, lavorano presso gli istituti. Gradirei che ci fosse un dialogo collaborativo. Forte della mia esperienza, vorrei essere propositivo nella speranza che talune prospettazioni, ove condivise, vengano accettate. Spero, inoltre, che vengano apportati quei correttivi tali da migliorare le condizioni di tutti.

Punti cardine della questione carceraria sono la rieducazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società. Questo vale anche per i condannati per i reati più gravi. È una cosa fattibile?

Si è dimostrato che è anche fattibile. Il peggior nemico è l’indifferenza. Molte persone, nella migliore delle ipotesi, su queste problematiche sono indifferenti. Ma, molte altre sono anche intolleranti e spesso intervengono senza alcuna esperienza e comprensione di drammi e travagli di sofferenze umane gravissime. Non mi riferisco a coloro che lavorano nelle strutture penitenziarie; a questi mi rivolgo fiducioso per l’attuazione delle competenze del Garante regionale, che deve relazionarsi con le istituzioni che hanno a cuore il miglioramento sociale della nostra collettività e promuovere reinserimenti lavorativi sia dipendenti che autonomi, il recupero culturale e sociale e la formazione attraverso dei corsi. La formazione si dovrà proiettare in maniera corposa in tutti gli istituti penitenziari. Deve essere però una formazione effettiva e seria. Una formazione in cui si porta la persona ad apprendere e ad acquisire una abilità lavorativa, attraverso corsi che comportino la frequenza, attestati finali e certificazione spendibile a fini occupazionale.

Dunque, il lavoro è una componente fondamentale per il recupero?

La dignità della persona si attua attraverso questo percorso. Il ritorno all’ambiente libero consentirà di fare scelte appropriate e utili anche per la collettività. Inoltre, quando si parla di benessere dei detenuti, bisogna pensare al benessere di quanti sono a stretto contatto con loro, che ogni giorno avvertono un disagio per la condizione di sofferenza e di intolleranza che può manifestare la persona detenuta che spesso versa in grave stato di disagio psichico. In tutto questo contesto sarà utile relazionarsi con la Cassa delle ammende, che, purtroppo, non è più nella disponibilità diretta del Capo del Dipartimento.

Rieducazione e percorso di recupero con esperienze lavorative abbassano la percentuale di recidiva. Sono due elementi che si muovono insieme?

Certo. Si è parlato sempre di una sorta di contrapposizione, quasi di antagonismo, tra libertà e sicurezza sociale. Le due cose non sono in antitesi. Il problema è trovare un equilibrio di fondo tra questi due valori. Se accentuiamo la paura, che aumenta laddove ci sono maggiori libertà e maggiori capacità di autodeterminazione, non facciamo un buon servizio. La libertà si deve accompagnare anche alla responsabilizzazione del soggetto. La persona deve maturare comprendendo che laddove sbaglia, ne avrà un danno. Mentre ove si manifesta collaborativa e crea un clima di fiducia, tutto diverrà più facile. Il problema è trattare questi elementi con intelligenza e con un senso di equilibrio che portano lontano da contrapposizioni tanto provocatorie quanto sterili. L’aggressività, anche nel confrontarsi, non è mai utile. Purtroppo, molti confidano nella forza. Ritengono che sia vincente. È bene che si corregga un certo modo di vedere le cose.

Alcune trasmissioni tv tentano di far passare un teorema: la rieducazione e il reinserimento sociale valgono solo per alcune categorie di detenuti. Per altre è impossibile, essendoci una sorta di marchio di infamia, legato all’appartenenza in passato ad una determinata parte politica. Un pregiudizio che distoglie dal vero obiettivo, vale a dire l’autentico recupero di chi ha commesso reati anche gravi?

Io prescindo da vicende e valutazioni che non conosco nello specifico. Sulle questioni generali posso però rispondere secondo quelli che sono i principi della nostra Costituzione, di rispetto del vivere civile. La Costituzione ci dice che tutte le pene, nessuna esclusa, devono tendere al reinserimento sociale, devono avere una funzione di emenda. Questo vale per tutti. Quando ero a capo del Dap, per l’esecuzione delle misure di sicurezza nei confronti di soggetti sottoposti al 41- bis abbiamo avuto grossi problemi per applicare la legge. Alcune modifiche e alcuni correttivi sono necessari. Non possiamo scandalizzarci per questo. Laddove i rischi sono maggiori ci devono essere dei controlli precisi ed incisivi. Elidere del tutto la speranza per un cambiamento e per una rieducazione a me pare un fuor d’opera. Io ho visto a tratti una trasmissione alla quale anche lei ha fatto cenno. Ci si sorprendeva del fatto che alcune persone fossero ammesse alla semi- libertà presso ambienti di lavoro i cui datori, forse, non avevano quelle qualità per garantire la rieducazione e il reinserimento. Di questo credo che se ne debbano fare carico tutti. Per prima la magistratura di sorveglianza, quando valuta l’ammissione a una misura alternativa. Nella mia esperienza di magistrato di sorveglianza la prima verifica riguardava le qualità del datore di lavoro e l’affidabilità dell’ambiente in cui la persona andava a lavorare. Se noi facciamo una prospettazione unilaterale e un po’ scandalistica, è evidente che veicoliamo un messaggio negativo. Gli errori nessuno li nega e ci possono essere nella misura in cui il tutto passa attraverso un credito di fiducia. Molti magistrati di sorveglianza, dando dei permessi premio, non hanno visto ripagata la fiducia concessa. Non per questo si annulla uno strumento che facilita il reinserimento sociale della persona. Tutto va fatto con la doverosa prudenza. La forza mediatica rappresentativa per immagini non sempre è nel giusto. Verità e giustizia, come insegna Karl Popper, si ricercano attraversano attraverso tormenti di dubbi e confronti.