Tommaso Greco, ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Pisa, è autore di un saggio - “La legge della fiducia. Alle radici del diritto” (Laterza) - molto utile per comprendere quanto accade intorno a noi. Il volume ha vinto pochi giorni fa la 66ma edizione del “Premio nazionale letterario Pisa” per la sezione saggistica. Un segnale confortante per la cultura giuridica.

Professor Greco, nell’evoluzione del pensiero giuridico moderno l’uomo è potenzialmente un reo. Un assunto che influenza anche il legislatore?

Direi di sì. Anche se non dovrebbe essere così, se guardiamo alla nostra Costituzione. Non solo con riguardo alla funzione rieducativa della pena, ma in generale pensando all’impianto personalistico della Carta costituzionale. Nonostante questo, una sorta di 'machiavellismo giuridico' condiziona la legislazione, che si basa su una diffidenza di fondo nei confronti dei cittadini e dei funzionari chiamati ad applicare le regole. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni, nei quali abbiamo avuto interventi normativi dall'evidente impianto sfiduciario. Un impianto che fa passare il senso del diritto dalla sua dimensione coattiva e sanzionatoria piuttosto che dalla sua dimensione relazionale.

L’ostatività del carcere mette da parte la funzione rieducatrice della pena. Ritorna il concetto dell’uomo reo e, in alcuni casi, eternamente reo?

Il carcere è il luogo fisico e ideale nel quale teoricamente si dovrebbe realizzare il passaggio dall’uomo reo all’uomo che ha ritrovato la sua inclinazione positiva verso la società e verso l’altro. Purtroppo, non sempre è così. Nella maggioranza dei casi, anzi, non è così, perché le condizioni nelle quali versano i detenuti non aiutano a far ritrovare quella fiducia che è necessaria a riabilitare una persona costretta dentro un istituto penitenziario. Nonostante alcuni sforzi che sono stati fatti in questa direzione, persiste la considerazione del carcere come luogo totalmente afflittivo, come luogo dove si deve provocare una sofferenza ritorsiva nei confronti di chi ha compiuto un delitto. Si fa fatica a pensarlo e soprattutto a realizzarlo, ammesso che ciò sia possibile, come un luogo davvero di rinnovamento, in cui le persone che hanno commesso dei reati possano vincere una sfida con sé stessi e ritrovare una nuova via per rifarsi una vita.  
 

Prendiamo il caso di un ergastolano. Dopo 25 o 30 anni di carcere, cosa si può pretendere ancora da lui in termini di fiducia verso la legge e la società?

Anche se qui è difficile fare discorsi in termini generali e bisognerebbe fare riferimento ai singoli percorsi, indubbiamente è difficile pensare che si possa sperare di ottenere qualcosa solo aumentando l’afflizione. Ricollegandoci alle ultime vicende politiche e legislative, è chiaro che alcune misure si spiegano solo con una idea della pena che non è quella della riabilitazione, ma è quella della retribuzione più severa, del far pagare il male compiuto con altrettanto male o addirittura con un male che non deve finire. È come se alcune persone che hanno commesso certi delitti venissero considerate non redimibili, cioè perdute per sempre, come se non potessero più ritrovare quel bene, la cui possibilità muove il discorso costituzionale della pena.

Lei affronta il tema del “modello sfiduciario”. Verso la legge? Di cosa si tratta? E cosa fa da contraltare a tale modello?

Io parlo di “modello sfiduciario”, perché vedo che il nostro diritto e la nostra cultura giuridica, sia quella dei giuristi di professione sia quella dei cittadini in generale, considerano il diritto essenzialmente come uno strumento per punire i soggetti, piuttosto che per agevolare le forme della cooperazione. La sanzione, certo, è qualcosa di essenziale per il diritto, ma concentrare tutto su un “modello sfiduciario” e verticale, cioè sulladimensione della punizione, fa perdere in fondo l’elemento della responsabilità reciproca. Quello che si perde di vista nel “modello sfiduciario” è il fatto che ogni norma giuridica si rivolge sempre a qualcuno che deve fare qualcosa verso qualcun altro. Ogni norma ci chiede sempre di fare qualcosa nei confronti di un altro soggetto. Pensare al diritto in termini di sanzioni ci fa vedere il nostro rapporto con lo Stato, ma ci fa perdere il senso di ciò che facciamo agli altri. Se cambiassimo il nostro sguardo, saremmo più attenti anche all'aspetto del consenso necessario alla base del diritto e quindi alla chiarezza della sua formulazione. Per tornare al decreto legge di qualche giorno fa: si è detto che è scritto male, che vengono usate espressioni vaghe. Tutte cose verissime. Ma si deve aggiungere che è letteralmente illeggibile per un cittadino normale perché si tratta di un testo composto da infiniti rimandi legislativi. È davvero impossibile scrivere le norme in un modo comprensibile per tutti? Pensare al diritto, a partire da un “modello fiduciario”, vuol dire prendere sul serio il fatto che le norme servono innanzitutto ai cittadini per cooperare e svolgere la loro vita di relazione.

Ci si appassiona e ci infervora di fronte a certi temi solo quando il legislatore fa passi sbagliati. È il segnale che la cultura giuridica è stata posta negli anni ai margini per fare spazio ad altro? La scomparsa di un grande giurista come Paolo Grossi, già presidente della Corte costituzionale, ha lasciato un vuoto incolmabile?

Purtroppo, la cultura giuridica in Italia è molto trascurata ed è considerata una cultura di nicchia che riguarda solo gli specialisti. Questo è avvenuto in gran parte per responsabilità dei giuristi, che, spesso, usano un linguaggio complicato ed esoterico. Ma la responsabilità è anche di chi, nelle occasioni in cui potrebbe farlo, tiene ai margini la cultura giuridica. Nelle ultime vicende i giuristi avrebbero potuto dire molte cose. Prima in occasione del Covid, poi con la guerra e ora con le vicende legislative italiane si ascoltano molti commentatori, ma solo in rare occasioni vengono interpellati i giuristi. Una conferma eclatante di questa messa ai margini della cultura giuridica l'abbiamo avuta in occasione della morte di Paolo Grossi, ex presidente della Corte costituzionale, un giurista importantissimo molto conosciuto anche all’estero. La sua scomparsa è stata quasi del tutto trascurata dagli organi di informazione. Peccato per questo atteggiamento. Nel nostro Paese non mancano giuristi raffinati e capaci di parlare al grande pubblico. Bisogna però dargli l’occasione di esprimersi. Occorre insistere sul fatto che la cultura giuridica riguarda tutti noi, dato che ogni giorno, anche se non ce ne accorgiamo, abbiamo a che fare con il diritto. Se il sistema dell'informazione si impegnasse un po' di più su questo fronte, sarebbe un'ottima notizia.