Non potete immaginare il fastidio politico, culturale e persino fisico che mi procurano quei 500 milioni di euro, cioè mezzo miliardo di euro, di presunti risparmi in un quinquennio, pari a cento milioni l’anno, che i grillini sventolano come una bandiera ogni volta che parlano davanti a telecamere e microfoni della “storica” riduzione del numero dei parlamentari, di cui stanno per ottenere l’approvazione definitiva alla Camera. E ciò «alla faccia di Matteo Salvini», ha detto qualche giorno fa a New York il ministro degli Esteri e capo, ancòra, del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. In verità, la Lega di Salvini ha approvato in tutti i precedenti passaggi la riforma costituzionale che riduce di 345 parlamentari le Camere. E l’approverà anche nell’ultimo, già programmato a Montecitorio per il 7 e 8 ottobre, stavolta insieme anche alla sinistra una volta contraria. Non si capisce, quindi, quella espressione polemica di Di Maio, che può rimproverare a Salvini solo un peccato veniale, dopo quelli mortali di tradimento e attentato alla democrazia contestati per la crisi del governo gialloverde provocata in agosto perseguendo le elezioni anticipate. Che possono non piacere, per carità, specie quando si ha paura di perderle, ma non mi sembrano, francamente, assimilabili a un reato.

In Italia abbiamo avuto ben due scioglimenti anticipati delle Camere, nel 1972 e nel 1987, solo per il convergente interesse dei due partiti allora maggiori e contrapposti - la Dc e il Pci - di rinviare referendum abrogativi di leggi ordinarie ma da entrambi ritenuti troppo scomodi perché “divisivi” dei loro elettorati. Nel 1972 si trattò del referendum sul divorzio, rinviato di ben due anni per effetto delle sopraggiunte elezioni politiche, e nel 1987 dei referendum contro la produzione di energia elettrica e le norme che impedivano ai magistrati di rispondere civilmente dei loro errori. Per questi ultimi referendum Dc e Pci si accontentarono di un rinvio di soli sei mesi perché, in realtà, c’era sotto quelle due prove un’altra ragione ancora più profonda che li univa: la necessità di liquidare il primo governo a conduzione socialista nella storia della Repubblica. Esso era stato realizzato da Bettino Craxi quattro anni prima con un accordo al quale l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita era stato costretto dall’arretramento elettorale seguito al suo avvento al vertice dello scudo crociato.

Allora era Craxi l’uomo che faceva paura. Ora è Salvini, imprudentemente scivolato - va detto - su quei “pieni poteri” reclamati prendendo forse troppo sole sulle spiagge. E’ lui l’Annibale alle porte ricordato con fine umorismo storico da Marco Follini per spiegare, condividendole solo in parte, e temendo gli abusi cui potrebbero prestarsi, la fretta, la disinvoltura e qualcosa ancor d’altro che hanno avuto grillini e sinistra di allearsi dopo essersene dette e date di tutti i colori, a Roma e in periferia.

A Salvini l’ex collega di governo Di Maio non perdona la perfidia di quell’offerta fatta, a crisi ormai avviata, di approvare la tanto ambita riduzione del numero dei parlamentari rinviandone però l’applicazione di cinque anni, cioè alla legislatura successiva a quella che avrebbe dovuto nascere dalle elezioni anticipate. Adesso invece il Pd, l’Italia Viva di Renzi e i Liberi e uguali di Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e compagni consentono ai grillini di portare a casa la riforma per applicarla già la prossima volta. Che però, curiosamente, sarà forse la stessa data alla quale pensava Salvini: il 2023, quando cioè sarà rinnovato l’attuale Parlamento appena scampato allo scioglimento prima della scadenza ordinaria.

Gli accordi di governo del Conte 2 - o Bisconte, come lo chiamano al Foglio - prevedono la riduzione del numero dei parlamentari compensata tuttavia da una riforma della legge elettorale - si vedrà in quale misura proporzionale - e dei regolamenti parlamentari. Ma, a governo insediato e fiduciato dal Parlamento, Di Maio ha chiesto e ottenuto una procedura diversa. Ha chiesto e ottenuto, cioè, di incassare subito l’approvazione definitiva della riduzione del numero dei parlamentari, cui seguirà il resto, se seguirà. Si sta insomma ripetendo la vicenda dell’abolizione della prescrizione.

Dicevo, all’inizio, del fastidio politico, culturale e persino fisico procuratomi dal risparmio proclamato dai grillini per vantarsi del taglio di 345 fra deputati e senatori. Dovrebbero essere ben altre, e più nobili, a cominciare da una maggiore funzionalità delle assemblee legislative, le finalità di una riforma del genere, che finisce così sommersa da una demagogia persino sfrontata se paragoniamo i cento milioni di euro l’anno di presunto risparmio agli 850 miliardi di spesa pubblica e facciamo i conti. Via, il Parlamento avrebbe meritato e meriterebbe più rispetto, specie se si considera che un economista non certo fra i minori come Carlo Cottarelli ha calcolato i risparmi in soli 57 milioni di euro l’anno, pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica. I grillini non se ne rendono forse conto, presi come sono dai loro tormenti, a dir poco, interni non abbastanza frenati dalla pratica digitale della democrazia. Ma è come se avessero giustificato nelle scorse settimane il loro no alle elezioni anticipate con la necessità di risparmiare 400 milioni di euro.