Per la serie: un passo avanti e due indietro. Dopo aver snobbato per mesi il tema delle alleanze, adesso che il voto si avvicina, movimenti, partiti e leader hanno finalmente preso coscienza che esiste un dopo 4 marzo e che il Paese non vive di campagne elettorali bensì di governabilità. Non che questo sviluppi l’onestà intellettuale e il senso di responsabilità di dichiarare preventivamente cosa si intende fare in modo da spiegarlo ai cittadini. Al contrario i capi politici, secondo la definizione introdotta nella nuova legge elettorale, continuano in massima parte a occhieggiare al “dopo” con ambiguità. Tuttavia è pur vero che qualcosa - tra confusioni, contorcimenti e soprattutto anatemi comincia a far capolino. Sui giornali, per esempio, campeggia il no pasaran di Vittorio Feltri secondo cui si prepara un mega- inciucione tra Pd, M5S e Grasso sotto la regia (!) di Romano Prodi; mentre sempre un mega- inciucione denuncia Marco Travaglio ma con attori diversi: Pd, Forza Italia, transfughi leghisti guidati da Ma- roni, ex grillini diventati dei senza patria, centristi vari alla Casini. Emma Bonino perimetra le larghe intese: fuori i sovranisti anti Europa di Lega e Fd, nonché gli “estremisti” pentastellati. Più o meno, l’idea di Renzi.

Infine Silvio Berlusconi le cui indicazioni vanno esaminate con attenzione. La linea è che se non c’è maggioranza niente ammucchiate: si torni al voto senza cambiare la legge elettorale. Piuttosto, ed è il sottinteso politico più importante, stringendo i bulloni del centrodestra per raggiungere quota autosufficienza in Parlamento. Insomma un bel guazzabuglio, dove ognuno punta ad esorcizzare i fantasmi che lo preoccupano. Demonizzare ciò che non piace è uno degli sport preferiti nell’agone politico italiano. Avvelena i pozzi del confronto democratico: ma che ( e a chi) importa?

Eppure a volerle ricercare alcune linee di tendenza che possono aiutare a districarsi, emergono. Il pericolo di una alleanza post elettorale “di sinistra” con i Cinquestelle o, di converso, un accordo di governo di tipo moderato e centrista che abbia come priorità la loro esclusione, sono scenari che - indipendentemente dal grado di percorribilità - tendono ad elidersi a vicenda. Più che altro puntano a mobilitare le truppe in vista dell’apertura dei seggi.

Più significativo, invece, il panorama indicato da Berlusconi. Sostenere, infatti, che se non c’è maggioranza bisogna tornare al più presto alle urne senza cambiare la legge elettorale intende innanzi tutto rassicurare la propria costituency che non ci saranno trattative o magheggi per radunare sotto le proprie bandiere eletti in altri schieramenti. Che sia un intendimento credibile o no, lo giudicheranno gli elettori. Il fatto è che, almeno apparentemente, questa road map mal si concilia con l’annunciato sostegno a Paolo Gentiloni in attesa del voto- bis, prospettiva che fa infuriare alla grande sia Salvini che la Meloni.

Proprio per questo, bisogna guardare più a fondo. Se infatti l’ex Cav intende ripresentarsi a breve dinanzi al corpo elettorale tutto può fare tranne che slabbrare lo schieramento nel quale milita. Smantellare il centrodestra per poi tornare a pochi mesi di distanza dai cittadini per chiedere la maggioranza è, per usare il linguaggio dalemiano, del tutto lunare. Come lunare è anche immaginare che Berlusconi stravolga la sua metà campo per stringere un’alleanza con Renzi ( nel frattempo perdente?) e arrivare ai nastri del voto- bis sotto le bandiere di un macroniano Partito della Nazione in grado di annoverare tutti gli “istituzionali” contro i barbari leghisti e pentastellati. Si tratterebbe di una inversione di ruolo, di un cambio di casacca che invece di motivare l’elettorato, lo farebbe girare come un trottola. Con quali risultati è impegnativo immaginare.

Dunque Berlusconi, se davvero punta a tornare alle urne, non può che blindare il “suo” centrodestra. Che poi questo lo costringa a pagare un prezzo, e di chissà quale entità, nei confronti di Salvini è inevitabile.

E come la mettiamo con Gentiloni? Qui soccorre lo scenario del Foglio, in qualche misura attribuito, anche solo come vagheggiamento, al Quirinale: il conte Paolo resterebbe a palazzo Chigi in virtù di astensioni incrociate come fu per il Giulio Andreotti della non sfiducia. Ma con il sostengo esplicito del Pd e di Renzi. Tradotto: Gentiloni dovrebbe continuare a sobbarcarsi il cilicio dell’impopolarità dell’azione di governo, in particolare per ciò che concerne la possibile manovra di primavera per non far scattare la procedura di infrazione Ue, e poi il centrodestra mieterebbe nelle urne i frutti della non complicità o non sfiducia che sia. A maggior ragione puntando al colpo grosso di riportare il Signore di Arcore sulla poltrona di premier.

Che Berlusconi, o più verosimilmente qualcuno del suo inner circle, coltivi simili raffinate strategie è possibile. Che tuttavia esse possano su serio realizzarsi è un altro paio di maniche. E se il realismo ha un senso, marcia con vigore in direzione opposta. Per cui non si scappa: chi vuole elezioni a raffica, peraltro mai realizzate in Italia e chissà cosa ne pensa sul serio Sergio Mattarella, non può che stringersi a coorte. Vale a destra come a sinistra. Solo che da quest’ultima parte le coorti hanno ricevuto da tempo l’invito a rompere le righe.