Il nuovo partito della sinistra, nato dalla scissione del Pd ( quello di D’Alema, Speranza e Rossi, per capirci) si chiama “Articolo 1”, e il riferimento è al primo articolo della Costituzione, cioè al lavoro. Il Pd dal quale si è scisso il nuovo partito, a sua volta, propone con Renzi il “lavoro di cittadinanza”, contrapponendolo al reddito di cittadinanza dei 5 Stelle. E sul lavoro, sull’idea del lavoro come valore supremo, insistono naturalmente i sindacati, la Camusso, Landini, la Fiom.

Sono solo parole, chiaro, ma in politica le parole contano molto. Tutta la sinistra italiana si ritrova su questa parola e solo su questa parola: il lavoro. Più o meno da 130 anni. Il motivo è evidente. La sinistra, non solo in Italia, è comunque figlia del movimento operaio. Sinistra, riparti dai diritti non dalla retorica del lavoro

Ecioè di quel possente movimento politico, ricchissimo di articolazioni, che si fondava sull’enorme forza sociale e morale della classe operaia novecentesca per condurre epiche battaglie riformiste e egualitarie.

Il problema è che oggi, se lo cercate, il movimento operaio non lo trovate più. È scomparso. È scomparso almeno vent’anni fa. E la stessa classe operaia, che ne costituiva il nerbo e la linfa, non esiste più in quanto “classe”, nei termini nei quali il significato profondo della parola “classe” era stato definito dal pensiero marxista e dalla parte più moderna e lucida della sociologia.

Non esiste più, probabilmente, per una ragione che non ha a che fare soltanto con la fine delle ideologie e con il crollo del comunismo, che si era preso ( o arrogato) il ruolo di interprete principale delle lotte operaie. Per una ragione legata all’imprevisto sviluppo della società e dell’economia determinato dalla forza cataclismatica delle tecnologie.

L’indistruttibilità del movimento operaio - nel corso del secolo feroce e a volte reazionario che è stato il novecento - è dipesa interamente da quello strumento formidabile che maneggiava: il lavoro, e cioè l’elemento insostituibile del progresso e della produzione di ricchezza. Non ci vuole un novello Carlo Marx per intuire che quello strumento si è inceppato, forse si è spento. Non è più il capitale o l’impresa ad avere bisogno vitale di nuovo lavoro ma sono i lavoratori ad avere bisogno vitale dell’impresa. Il lavoro ha un peso sempre meno rilevante nel processo produttivo. I rapporti di forza - sul terreno della produzione - si sono spostati in modo clamorosamente massiccio e irreversibile. E si sposteranno ulteriormente.

Il lavoro era la grande forza della sinistra ma non era il suo ideale ultimo. L’ideale della sinistra è sempre stata l’uguaglianza, o almeno l’equità, o la giustizia sociale. Il lavoro era un mezzo politico, un connotato di classe. In questi anni abbiamo assistito ad un corto circuito: la sinistra ha ceduto moltissimo terreno sul piano delle lotte per l’uguaglianza e ha mantenuto acceso, invece, il “lumicino” del lavoro.

Sono convinto che da questo cortocircuito è nata non solo la crisi della sinistra - e non solo in Italia - ma anche lo sbandamento di tutta l’asse della lotta politica. La destra e la sinistra hanno finito per assomigliarsi sempre di più. Lo scontro tra loro è diventato uno scontro esclusivamente di ceto politico, non più di idee o di grandi interessi di massa. E in questo modo hanno preso il sopravvento i nuovi “signori”, che non c’entrano più con la politica tradizionale: i populismi, il mercato, il giustizialismo.

La loro ideologia dilaga, sembra impossibile fermarla. Contesta il ceto politico in quanto ceto politico e contestandolo delegittima la politica. E ne prende il posto. E il potere. E l’idealità. E la capacità di attrarre e organizzare il consenso.

C’è un solo grande valore che può opporsi a questa deriva. È il valore del diritto e dei diritti.

È pura illusione immaginare una ripresa della giustizia sociale attraverso il conflitto sociale. Così come è fantasia credere che la libertà possa affidarsi, mani e piedi legati, al mercato. La giustizia sociale, e la libertà, possono crescere solo se il Diritto riesce a imporre la sua superiorità rispetto ai valori del mercato e al populismo. Altrimenti sono destinate a diventare un aspetto del tutto residuale della modernità.

Questa è la grande partita politica che è aperta, proprio qui in Italia, qui in Europa: tra una modernità concepita come “Stato di Diritto” e modernità intesa come “Stato del Mercato e della Pena”. Ma perché questa battaglia si svolga ad armi pari bisogna che la politica torni in campo. Possibile che la politica sia così cieca da non capire che gli stessi grandi ideali del passato ( quelli liberali, quelli socialisti) oggi hanno un futuro solo se si ritrovano insieme a difendere il campo del Diritto? Dov’è l’uguaglianza senza il Diritto? Dov’è la liberà senza il Diritto?

E però appare chiaro che la politica da sola non ce la fa. Balbetta, spesso trema, fugge, tenta di blandire il populismo.

La politica ha bisogno di nuovi alleati, e può trovarli solo nella società, in nuove aggregazioni che mettano insieme ideali e interessi collettivi della modernità. Le professioni, i nuovi “corpi intermedi”. Che devono uscire però dalla antica subalternità: non proporsi più alla politica come “clienti”, o come “strumenti” di consenso. Ma come protagonisti, portatori di una idea di modernità che è loro propria e che pretendono, dalla politica, che diventi “strategia”.