«Sì, siamo ancora in guerra. Non è finita, non illudiamoci. Averne arrestati e condannati anche molti, di mafiosi, capimafia, non deve indurci a considerare conclusa l’opera. Si arriva al traguardo quando il principio di legalità avrà davvero soffocato le organizzazioni criminali. Prima no: continua a esserci bisogno degli strumenti normativi straordinari di cui l’Italia si è dotata per contrastare le cosche. Non solo in termini di sanzione penale ma anche sul piano patrimoniale». Emanuele Crescenti è stato al centro di una dialettica molto serrata, alimentata anche su queste pagine: procuratore a Palmi, il magistrato di origini siciliane è prima intervenuto a un convegno organizzato a Capo d’Orlando da Camera penale e Ordine forense di Patti, quindi, ad alcuni passaggi molto aspri della sua analisi, Alessandro Barbano ha replicato con un’intervista al Dubbio, anche perché chiamato in causa dallo stesso procuratore. Ma a parte la sequenza, il nodo è tutto in quell’interrogativo: la specialità delle misure di prevenzione è ancora necessaria, coerente con i tempi? La possibilità, prevista dalla legge italiana come lo stesso procuratore Crescenti ribadisce, di sequestrare e addirittura confiscare un’impresa nonostante il titolare sia stato assolto, dalle accuse di mafia, in un processo penale è davvero tollerabile? Davvero l’Italia non può fare a meno di un simile sacrificio delle garanzie?

Ecco, procuratore Crescenti: cosa si può rispondere, a questi interrogativi?

Che se solo noi per un attimo decidessimo di abbassare la guardia e modificare le misure di prevenzione, la mafia riprenderebbe terreno. È così: lo comprende chi vive sul territorio e ne osserva le dinamiche. Vorrei ricordare come ci si è arrivati, per chiarezza.

Prego.

A inizio anni Novanta, con le stragi di mafia, ci siamo trovati davanti a uno scenario non troppo diverso dalla Beirut degli anni Ottanta. Capisco si esiti a parlare di guerra, ma se pensiamo che per assassinare Giovanni Falcone è stato fatto saltare in aria un pezzo di autostrada, ci rendiamo conto di come non ne fossimo poi così lontani. Così lo Stato ha deciso di creare un doppio binario nel campo della repressione.

Doppio binario che è in sostanza l’oggetto della discussione sviluppatasi da alcuni anni a questa parte.

Sì: al binario della giustizia penale ordinaria si è affiancata una procedura mirata particolarmente al contrasto della criminalità, mafiosa e non solo. Sono state schierate le migliori forze possibili di polizia e magistratura. E sono stati introdotti strumenti normativi specificamente rivolti a individuare e colpire i patrimoni mafiosi. Come ho ricordato a Patti, non bastava la privazione della libertà personale, che veniva messa in conto, dagli appartenenti all’organizzazione, come rischio d’impresa: ciò a cui il mafioso non poteva rinunciare, nella propria ottica, era l’accumulo patrimoniale.

Lei, al convegno, ha replicato con estrema durezza a chi ritiene che le misure di prevenzione patrimoniale siano sotto diversi aspetti ingiuste.

Vorrei fosse chiara una cosa: al convegno non ho dato, come invece sembrerebbe emergere dall’intervista all’autore de L’inganno, Alessandro Barbano, del “mafioso” a chi critica le misure di prevenzione antimafia: ho detto che partire da un singolo caso di possibile ingiustizia per mettere in discussione l’intero sistema, ecco, questo rischia di fare il gioco della mafia. Finiremmo per compromettere anni e anni di efficace contrasto.

Ma davvero possiamo accettare casi in cui una persona assolta dall’accusa di mafia nel processo penale vero continui a vedersi sequestrati i beni?

Premessa: al convegno di Patti si è parlato di errori giudiziari. Lo ha fatto in particolare un imprenditore, Pietro Cavallotti. Io non posso rispondere su quel particolare procedimento: dovrei sostituirmi al giudice che l’ha seguito. Certo non posso essere d’accordo nel momento in cui l’imprenditore giudica superficiali determinate sentenze della Suprema corte di Cassazione: parliamo della più alta giurisdizione, nella patria del diritto. Non posso essere d’accordo neppure quando Barbano critica pronunce della Corte costituzionale. Ora, intendiamoci: il dubbio non è solo il nome della vostra assolutamente apprezzabile testata. In dubio pro reo è anche una regola basilare per noi magistrati. E il dubbio, sia chiaro, trova la possibilità di insinuarsi anche nel procedimento di prevenzione. Che ha le sue garanzie. Necessariamente diverse, questo sì è inevitabile, rispetto al processo penale. In quest’ultimo, io devo provare la condotta, il nesso di causalità fra la condotta e l’evento accertato, e infine la responsabilità sotto il profilo psicologico, giacché colpa e dolo sono diversi. Nel processo di prevenzione si parte da un accumulo patrimoniale e dall’eventuale sua sproporzione rispetto alla reale capacità lavorativa del soggetto. Qui l’onere probatorio è in capo al destinatario, il quale deve spiegare l’origine di quelle ricchezze. Faccio un esempio: ormai esiste un mercato nascosto per i biglietti vincenti del superenalotto, sui quali la mafia è disposta pagare un sovrapprezzo pur di rimediare giustificativi del proprio capitale. Ecco perché è davvero complicato trasferire sulla prevenzione antimafia i principi garantistici del processo penale. Nel secondo è in gioco la libertà personale, che è un bene primario, per il quale è giusto prevedere procedure più rigide a tutela di chi è accusato.

Ma per chi ha lavorato a lungo, anche vedersi privati dei beni frutto del proprio impegno è pesante, quasi quanto finire in prigione da innocente.

È evidente, è così. Ma nella prevenzione, garanzie e diritti di difesa sono assicurati. Vogliamo perfezionarli? Benissimo. Ma non possiamo arrivare a far decadere le misure patrimoniali in modo automatico, a fronte di un’assoluzione nel processo penale. Vorrebbe dire vanificare uno strumento di contrasto straordinariamente incisivo. Si pensi alle intestazioni fittizie: può verificarsi di non riuscire a dimostrarne il reato, ma se resta ingiustificata la sproporzione dei beni accumulati, davvero lo Stato dovrebbe revocare il sequestro o la confisca?

Può volerci tempo, perché un procedimento di prevenzione completi il proprio iter: nel frattanto l’amministratore giudiziario non riesce a far vivere l’impresa, che magari viene finalmente restituita al titolare risultato innocente, ma quando è troppo tardi.

È questo il nodo più urgente da sciogliere: la professionalità, la qualità degli amministratori giudiziari. Su questo ci siamo trovati d’accordo, al convegno, anche con il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza: vanno individuati professionisti dell’impresa in grado di non compromettere il valore aziendale, durante il procedimento di prevenzione, che può concludersi con un esito favorevole al destinatario.

Insomma, davvero noi non possiamo veder attuato, in questo campo, il principio cardine del diritto penale liberale, secondo cui scongiurare la misura afflittiva nei confronti di un innocente è più importante che lasciare impunito un colpevole?

Nel processo penale si può essere assolti perché un'intercettazione diventa inutilizzabile per vizi procedurali. Se però da quello strumento io ricavo elementi che giustificano il sequestro, non credo si possa far cadere quella misura. Possiamo migliorare le norme, ripeto, ampliare l’interdipendenza fra giudizio penale e misure di prevenzione. Ma non possiamo ragionare come se la guerra fosse finita davvero.