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«Prima di tutto, è il caso di sdrammatizzare: non c’è affatto l’idea di riformare la giustizia contro la magistratura. Secondo, la separazione delle carriere è una modifica costituzionale in linea con il sistema accusatorio sancito all’articolo 111 e necessaria anche nell’ottica di ridurre il peso mediatico delle indagini. Di allontanare la confusione secondo cui pm e giudice sono la stessa cosa, al punto che la tesi prodotta dall’inchiesta di una Procura viene paradossalmente percepita dall’opinione pubblica come verità incontestabile. È un circuito da spezzare: in tale prospettiva, la riforma costituzionale della magistratura è particolarmente utile».
Nazario Pagano presiede la commissione Affari costituzionali della Camera. Avvocato, esponente di Forza Italia, ha una delle missioni più impegnative dell’intera legislatura: dirigere i lavori sulla riforma che dovrebbe segnare il divorzio fra giudici e pm. È il dossier che più di tutti rischia di incendiare la dialettica fra la magistratura associata e la maggioranza, affiancata sul punto dal Terzo polo.
Ma intanto, presidente Pagano, l’idea di riforma conflittuale stride con un dato: dalla separazione delle carriere deriverebbe un così impegnativo percorso di modifiche anche ordinarie che il dialogo costruttivo fra Parlamento toghe dovrebbe durare anni. O non è così?
È chiaro che tutto, anche il dialogo, va sempre concepito nel quadro di una chiara separazione dei poteri: il legislatore fa le leggi, il magistrato le applica. In una cornice simile, il decisore politico può avvalersi senz’altro del contributo tecnico dei magistrati. E posso dirle che ho trovato preziosa, ad esempio, la presenza del presidente Anm Giuseppe Santalucia al convegno organizzato giovedì sulla separazione delle carriere dall’Ocf, dibattito al quale è intervenuto anche il presidente del Cnf.
La magistratura associata dice no alle carriere separate, ma c’è il rischio che resti in ombra una “maggioranza silenziosa” di magistrati giudicanti interessata invece a questa modifica?
Difficile dire se questa maggioranza silenziosa di giudici esiste. È chiaro, questo sicuramente, come già oggi vi siano giudici in grado di svolgere la propria funzione con quella terzietà che è l’obiettivo cruciale da cogliere attraverso la separazione delle carriere. D’altra parte, questi esempi positivi non bastano a scongiurare l’ulteriore effetto distorsivo dell’attuale sistema giudiziario: la mediatizzazione delle indagini, la confusione fra tesi dell’accusa e verità consacrate da una sentenza. È questa confusione che ancora oggi finisce per equiparare un avviso di garanzia a una sentenza definitiva. Ancora oggi è una locuzione che rimanda al paradigma di trent’anni fa, quello introdotto da Mani pulite.
Siamo ancora fermi lì?
Ci sono state riforme parziali del sistema penale, penso anche alle norme sulla tutela della presunzione d’innocenza. Ma mi è bastato guardare lo speciale su Raul Gardini appena messo in onda dalla Rai per ricordarmi di quanto quell’impronta pesi ancora sul nostro processo. Fu una stagione drammatica, in cui il solo essere indagati distruggeva l’immagine di chiunque, tanto che alcuni come Gardini e Cagliari ritennero di non potersi difendere da quel meccanismo terribile e che fosse preferibile mettere fine alla propria esistenza. Si ordinarono arresti finalizzati all’ottenimento di confessioni. Nonostante quegli squilibri fossero evidenti, il processo mediatico, con il peso tutto spostato sulla fase delle indagini, è un fenomeno tuttora presente, il che ci fa capire quanto sia necessario separare le carriere e portare a compimento anche altri capitoli di riforma.
A proposito di quanto lei dice: il presidente del Cnf Greco, al convegno di giovedì, ha segnalato l’urgenza di rendere tra loro “estranei” tutti gli attori del processo, anche il giudice e il pm che oggi invece sono colleghi. Se il pm diventa una parte al pari dell’avvocato, il cittadino sarà meno portato a confondere le tesi della Procura con sentenze definitive?
È esattamente così. Va risolto una volta per tutte il paradosso secondo cui nel linguaggio comune anche il pm viene chiamato giudice. È un paradosso semantico dietro cui c’è tutto un modello di percezione pubblica: ed ecco perché certamente la separazione delle carriere può contribuire ad arginare il processo mediatico. Voglio dire che cambierebbe la fiducia nel sistema non solo per chi da un procedimento penale è investito, ma anche per l’opinione pubblica generalmente intesa, che avrebbe davanti a sé un assetto più equilibrato e valuterebbe per questo con più equidistanza le notizie sulle indagini.
Ma basta la riforma costituzionale, per rivoluzionare la percezione della giustizia?
No, e non a caso il governo, con il ministro Carlo Nordio, ha predisposto altri interventi, che mirano ad esempio a scongiurare la pubblicazione indebita di stralci di intercettazioni, a preservare la privacy e la dignità di indagati ed estranei alle accuse. E aggiungo: un sistema più equilibrato dovrà prevedere anche l’avvocato in Costituzione, la riforma sollecitata dal Cnf con cui si intende riconoscere al difensore un rilievo analogo a quello del pm, e un’autentica libertà nell’esercizio della funzione. Ripeto: nulla di tutto questo dovrebbe essere vissuto come un attacco all’autonomia e indipendenza della magistratura.
Nei giorni scorsi un sostituto pg, il dottor Gaetano Bono, ha firmato sul Dubbio un articolo in cui si esprime positivamente sulle carriere separate, ma definisce pericoloso l’assoggettamento del pm al governo.
Voglio chiarirlo da presidente della commissione Affari costituzionali, dove la riforma è in discussione: non c’è una sola forza politica, nella maggioranza di governo, che intenda introdurre, con la separazione delle carriere, un assoggettamento del pm all’Esecutivo. Una soluzione a cui non sono personalmente favorevole e che, ribadisco, non è nei piani né del governo né dei partiti in Parlamento.
Neanche per l’Ucpi, che raccolse le firme per il primo ddl sulla separazione, si trattava in effetti di un requisito irrinunciabile. Il chiarimento su questo punto basterà a sdrammatizzare la riforma, a evitare che, quando dopo l’estate nella commissione da lei presieduta ripartirà l’iter, si scateni un’ordalia?
Non c’è motivo di drammatizzare. Siamo aperti al confronto e assolutamente non animati da intenti punitivi. Trovo utile l’analisi di alcuni pm di peso secondo i quali l’appartenenza alla stessa carriera allontanerebbe il rischio di trovarci con dei pm-superpoliziotti. D’altra parte potrei ribattere che oggi chi ha fatto il pm e diventa giudice rischia di svolgere quest’ultima funzione con uno sguardo sbilanciato a favore dell’accusa. E più in generale, quando dico che, con la riforma costituzionale, ne vanno realizzate altre di rango ordinario, penso anche a nuovi percorsi per la formazione dei magistrati, a un inserimento in ruolo più graduale: la cosiddetta cultura della giurisdizione va insegnata e poi consolidata con un tirocinio adeguato. Cambiare la giustizia è possibile, a maggior ragione se in mente si ha non un atto di rottura ma la ricerca di un migliore equilibrio.