L’importanza della ricostruzione economica dopo la prima emergenza sanitaria ha prodotto una convergenza inedita. Si parla di semplificare, sfoltire, disboscare gli appalti pubblici per favorire gli investimenti. A favore della discrezionalità amministrativa troviamo non solo i critici dell’ANAC, ma anche l’ex Presidente di quest’ultima, in un suo recente intervento. Il Presidente del Consiglio di Stato ha in parte aperto al modello Ponte di Genova e parlato di una procedura generale semplificata. In chi, come il sottoscritto, vede da tempo nelle norme sugli appalti un insopportabile reticolo burocratico degno del più bizantino tra gli azzeccagarbugli il nuovo spirito dovrebbe istillare soddisfazione.

Dopo una prima sbornia di ottimismo, mi sono domandato: basterà? Oddio, temo di no. Ci sono altri nodi da recidere. O quantomeno, di grazia, da sciogliere in fretta.

Riscrivere il codice del 2016 non si può. E’ un testo tanto strano quanto complicato. Meglio eliminarlo del tutto e sostituirlo con un recepimento snello delle direttive. Poi, c’è da capire come sia stato possibile che in circa 20 anni, prima in nome della concorrenza e poi dell’anticorruzione, si sia moltiplicato il numero di gare, procedimenti, vincoli, regole e regolette, ben oltre l’indice Ro2, a tutti noi purtroppo ormai familiare. Domandate nel caso concreto: “più o meno gara?”. Vi sarà risposto ineffabilmente: “più gara!”

Certo, la concorrenza è importante e proviene dall’UE. Però non avremmo dovuto dimenticare così in fretta quanto importante fosse pure l’interesse dell’amministrazione ( e di noi tutti) a che gli appalti fossero fatti. Mi pare, poi, non ci si liberi dall’altro equivoco: le norme per affidare ed eseguire l’appalto non servono ( e non devono servire) a prevenire la corruzione. A questo penserà l’anticorruzione amministrativa ( da utilizzare, per carità, col granello di sale … per non eccedere in moduli, RPC e certificati) e il diritto penale. Né servono a combattere la corruzione procedimenti di gara più articolati, con offerte segrete, chiarimenti, sedute riservate, esclusioni, anomalie etc. Anzi, il corrotto lo si scopre meglio se la stazione appaltante deve spendere un po’ di discrezionalità.

Sopravviva pure l’ANAC, ma non si occupi più degli appalti. Liberiamoci da questa italica unicità. Torniamo a due autorità distinte, in modo da lasciare l’anticorruzione solo ad una ed all’altra gli appalti. E, abbiate pazienza, non per “vigilare” con severo cipiglio, ma per assistere le stazioni appaltanti verso il risultato. Il disboscamento non servirà a molto se non si proteggerà la nostra amministrazione. Pensiamo alla Corte dei conti. Piuttosto che trasformarla – come da qualcuno proposto – in un controllore preventivo, si dovrebbe aiutarla, anche con una tipizzazione degli illeciti, a non allargare troppo la responsabilità della Pubblica amministrazione.

Il giudice amministrativo per un paio d’anni nella fase di merito potrebbe trattare solo del risarcimento del danno anziché dell’annullamento. Non credo ci si debba stracciare le vesti. Piuttosto, il giudice dia vitalità alla fase cautelare, troppo spesso trattata come stazione di transito per l’udienza pubblica.

Anche la giurisdizione penale deve riflettere e partecipare a un afflato istituzionale comune che aiuti la ricostruzione economica del Paese. Non credo sia solo questione di come son scritte le norme incriminatrici, ma del modo di applicarle. Non si abbassi la guardia quando è giusto tenerla alta, ma si sappia che una sola iniziativa, pur circoscritta alle indagini preliminari, può compromettere un investimento pubblico.

Il Procuratore generale della Cassazione, mostrando visione istituzionale, si è recentemente rivolto agli uffici requirenti per evitare l’affollamento delle carceri e auspicare cautela nell’uso della carcerazione. Non è impossibile che simili messaggi istituzionali servano ad altri fini, in prospettiva. Se c’è una cosa che non deve mancare a nessuno di noi, oggi, è il coraggio.