«Il funerale di Armita, e la presenza di coloro che vi hanno partecipato, ha dimostrato quanto il popolo iraniano sia disgustato dalla violenza contro le donne. Sapevamo solo una cosa: non potevamo rimanere in silenzio». A raccontarlo è Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana paladina dei diritti umani, reduce da due settimane di carcere per aver osato partecipare al funerale della giovane Armita Garavand senza velo. E senza velo pretende di rimanere, invitando la comunità internazionale a respingere con forza ogni forma di violenza contro le donne, violenza che il regime continua ad imporre con la dittatura dell’hijab.
Come è avvenuto il suo arresto e per quale motivo? Ha subito violenza?
Il 29 ottobre ho partecipato al funerale di Armita Garavand al Paradiso di Zahra (cimitero a sud di Tehran, ndr). Armita è l’adolescente di 16 anni che ha perso la vita a causa del velo, aggredita da un’altra donna mentre andava a scuola. Un governo la cui sorveglianza è tale da inviare messaggi di avvertimento sui cellulari delle donne che non indossano l’hijab non è stato ancora in grado di dichiarare l'identità dell'aggressore. Al termine della cerimonia funebre, siamo caduti in un'imboscata e siamo stati ferocemente attaccati da agenti di sicurezza in borghese che ci hanno arrestati dopo aver scatenato una grande violenza. Eravamo 23 donne e circa altrettanti uomini. Siamo stati trascinati in furgoni e condotti al centro di detenzione di Vozara, lo stesso luogo dove Mahsa (Amini, ndr) è stata uccisa e molte altre donne sono state aggredite, luogo che avevano dichiarato di aver chiuso. Beh, non è stato chiuso. Al funerale c’era anche Manzar Zarrabi, una madre che ha perso quattro dei suoi figli sul volo ucraino 752 (buttato giù dall'Irgc, ndr). Lei teneva l'estremità di una serie di foto ingrandite dei suoi figli e io tenevo l'altra estremità. Gli agenti hanno preso le foto da sopra le nostre teste. Manzar li ha inseguiti e ha urlato contro di loro. Ha recuperato le foto, le ha piegate e le ha messe nella sua borsa. Pochi minuti dopo, l'hanno aggredita e spinta a terra. Mi sono fatta avanti per aiutarla ad alzarsi e hanno buttato a terra anche me. Sono caduta all'indietro, sbattendo la testa contro delle pietre e sentendo un forte dolore. Roya, una dei partecipanti al funerale, mi ha aiutata a rialzarmi, ma hanno aggredito anche lei e poi ci hanno arrestate, insieme a un altro gruppo di persone. Non posso descrivere l'intensità della violenza a cui abbiamo assistito o il modo in cui hanno espresso disprezzo per i nostri capelli, trascinandoci a terra. Non potevo crederci, eppure stava accadendo. Quello era il punto di separazione tra la cultura del popolo e quella dei funzionari. Una brutalità che si accompagnava a simboli antifemministi e all'odio verso i nostri capelli. Lo spintonamento delle donne, che è diventato uno dei tratti distintivi della violenza di genere del regime, è stato evidente quel nel Paradiso di Zahra. Avevano arrestato la maggior parte delle donne spingendole. Ed è quello che avevano fatto ad Armita: l'avevano spinta. La sua testa aveva sbattuto contro la ringhiera della metropolitana, aveva perso conoscenza ed era morta in ospedale.
Com’è stato l’arrivo in carcere?
Nel centro di detenzione di Vozara, gli agenti sono addestrati a provocare traumi e disturbi psicologici. Ricordo bene come ci hanno chiesto ripetutamente i nostri dati personali. Una seconda, una terza e una quarta volta. Avevo più o meno familiarità con questa tecnica. Dopo la seconda volta, ho detto loro: “Non sono un vostro impiegato, andate a prendere i nostri dati da chi ha le nostre informazioni personali”. Lui mi ha ignorata e ha interrogato di nuovo il nostro gruppo, rendendo l'atmosfera tesa, con comportamenti volgari e offensivi. Una volta, ad una distanza piccolissima da noi, ha chiamato una ragazza del nostro gruppo: “Golnar...” e poi ha usato un linguaggio esplicito. Lei, che stava di fronte a lui, ha risposto: “Sono qui...”. Io, che assistevo al loro scambio, temevo che lui potesse imprecare contro di lei o colpirla. Mi sono messa tra lui e Golnar e ho detto: “Questi sono funzionari di Vozara, non degnateli di rivolgervi a loro”. In quel momento, chiamare qualcuno funzionario di Vozara era il peggior insulto che si potesse rivolgere. Non si poteva dire “Commando Fatemeh” (storica attivista per i diritti delle donne in Iran, ndr) o “Commando Sakineh” (condannata a morte per adulterio, ndr), perché tutti questi termini potevano essere interpretati come insulti alle dignitose Fatemeh, Sakineh e agli onorevoli commando. Questi erano i termini diminutivi e umilianti che il popolo iraniano usava per questi agenti. Ma essere un agente a Vozara, per molti, significava svolgere la più indegna delle occupazioni... Ed è per questo che quel giorno ho usato questo termine. Quella notte fecero di tutto per ottenere la password del mio cellulare. Andavano e venivano, chiedendomi incessantemente la “password”. Io li ignoravo e li respingevo, mentre parlavo con i miei amici, dicendo loro: “È ovvio che non vi darò la mia password”. Loro mi hanno risposto: “Non è difficile per noi accedere al tuo telefono”. E io ho ribattuto beffardamente “allora fatelo”. Per tutta la notte non sono riusciti a farlo. Non so, forse è stato questo il motivo, o forse ce n'erano altri, per cui non ci hanno lasciato dormire fino al mattino.
Cos’è successo il giorno dopo?
Ci hanno portati dal procuratore di Evin. Ci siamo seduti senza velo nel cortile, per vendicarci dei loro comportamenti scorretti. È stata un’esperienza meravigliosa. Gli uomini dell'ufficio del procuratore non riuscivano a crederci e ci fissavano con gli occhi sgranati. Venivano, ci fissavano e se ne andavano. Eravamo così profondamente presi dalle nostre attività quotidiane che abbiamo sempre perso l'occasione di ridere delle loro espressioni scioccate.
Cosa hanno rappresentato i funerali di Armita e perché hanno fatto così tanta paura al regime?
Il funerale di Armita, e la presenza di coloro che vi hanno partecipato, ha dimostrato quanto il popolo iraniano sia disgustato dalla violenza contro le donne. Sapevamo solo una cosa, che non potevamo rimanere in silenzio e che la presenza di persone come Manzar avrebbe messo in luce la correlazione tra i vari crimini dello Stato, i comportamenti ricorrenti, uno schema che purtroppo si ripete. La sera successiva, Manzar ha avuto gravi convulsioni. Ha quasi 70 anni e sono stati costretti a rilasciarla.
Lei ha sempre contestato l'autorità giudiziaria decidendo di non prendere parte al processo in cui era imputata, ma questa volta ha insistito per entrare in Tribunale senza velo. Perché?
Sì, è vero. Sono ancora convinta che la magistratura permetta al regime di sostenere la finzione di una procedura legale per emettere le sue sentenze ingiuste. Ma quel giorno volevo dimostrare che un governo non può usare l’hijab come scusa per negare i diritti di un imputato. Un giudice può solo riferire alle autorità competenti che l’imputato è senza velo. Non hanno saputo cosa fare fino alle 19.00. Hanno ammanettato me e Manzar diverse volte e hanno detto che ci avrebbero riportate al centro di detenzione e che dopo mezz’ora ci avrebbero riportate indietro. Ma noi abbiamo continuato a rifiutarci di coprire i capelli. Alla fine, quando Manzar ha avuto l’attacco epilettico, è stata liberata e mi hanno detto che mi avrebbero chiesto di presentare la mia difesa compilando il questionario nell'auto fuori dall'ufficio del procuratore. Mi sono rifiutata di farlo. Sono rimasta in macchina e dopo un po’ di tira e molla, di caos e di confusione, ho presentato ufficialmente una denuncia per il fatto che la mia difesa era stata acquisita illegalmente fuori dal tribunale. L'ho fatto per documentare la procedura illegale.
Che accuse le sono state mosse? E cosa accadrà ora?
Al momento mi trovo di fronte a cinque capi d’accusa: violazione delle regole dell'hijab, disturbo dell'ordine pubblico, disobbedienza agli ordini degli agenti, propaganda contro il sistema, associazione con l'intento di mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Ciò che accadrà dipende dalla decisione del tribunale. Finora non ho ancora ricevuto la convocazione e la data del processo. Ma quando accadrà, andrò in tribunale senza velo.
Lei è rimasta in carcere circa due settimane. Cos’è successo durante il suo periodo di detenzione?
Nelle prime ore, hanno usato dei taser. Mentre ci trovavamo nel furgone, ho cercato di cambiare l'atmosfera cantando le canzoni di Sayeh e Hamid. Da quel momento in poi, poiché eravamo andate al funerale senza velo, siamo rimaste senza velo e così siamo andate in procura il giorno dopo. Un giorno, il delegato del giudice ci ha fatto visita nel reparto dove eravamo detenute. Quando una di noi, Fatemeh, si è avvicinata per consegnargli una lettera riguardante il suo caso, lui ha voltato lo sguardo e ha detto: “Non darò seguito alla tua richiesta”. Ero seduta in stanza e non avevo intenzione di andare da lui. Mi sono alzata per uscire, naturalmente senza velo, e lui ha subito detto: “Non mi occuperò nemmeno di questioni che riguardano te”. Ho risposto, in modo piuttosto sprezzante: “Non ti ho chiesto di fare nulla”. E lui ha ribadito “non ti ascolterò”. Al che io ho aggiunto: “Il presupposto qui è che tu abbia familiarità con la legge. La legge non ti permette di rifiutarti di occuparti dei casi perché gli imputati non portano il velo. Inoltre, tutti noi abbiamo il velo: il nostro velo è ciò che abbiamo appena visto”. Anche altri si sono lamentati della sua condotta e hanno detto che non volevano avere niente a che fare con lui. Così si è alzato e se n’è andato. Il giorno dopo ho scritto al direttore del carcere e gli ho spiegato i suoi doveri legali in termini di controllo delle attività del suo personale. Gli ho anche detto che la determinazione del nostro rispetto o meno del velo non spettava al giudice delegato e che i funzionari non possono ignorare i loro doveri adducendo il mancato rispetto dell'obbligo dell'hijab, un reato che equivarrebbe a un abuso di potere e giustificherebbe un'azione legale. Sono passata dalla prigione di Qarchak, dall'ufficio del procuratore di Evin, dal centro di detenzione di Vozara e dalla prigione di Evin senza indossare il velo. Sono tornata alla mia lotta, 13 anni prima, dove, dopo molti alti e bassi, nell'arco di 18 mesi, ero riuscita a togliermi il velo, ed erano ormai molti anni che non pensavo al desiderio di farlo. Durante il mio ultimo arresto, avvenuto per aver difeso le “Figlie di via della Rivoluzione” e il loro diritto di indossare abiti di loro scelta, ero stata condannata a 38 anni e mezzo. Ho detto a mia figlia, che aveva 18 anni, che sarei uscita quando avrei potuto farlo senza indossare il velo. Sono ancora prigioniera di quella sentenza e ora stanno preparando un nuovo processo contro di me. Per il momento, sono uscita senza velo. Spero che tutte le donne possano usufruire di questa opportunità senza correre alcun pericolo.
La comunità internazionale si è mobilitata in sua difesa. Che cosa possono fare le istituzioni per dare voce alla battaglia per i diritti delle donne?
Per affermare i diritti delle donne, la comunità mondiale deve insistere sui valori umani comuni, sul diritto alla libertà di parola, sui diritti delle donne, sulla non violenza contro le donne e sul diritto delle donne di scegliere il proprio abbigliamento. Negli ultimi 45 anni, la Repubblica islamica ha abusato unilateralmente dell'idea di rispetto per le diverse culture per imporre la sua prospettiva reazionaria al mondo: basti pensare alla questione del velo. La Repubblica islamica vuole che tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro ideologia e prospettiva, permettano ai musulmani che li visitano di rispettare il loro diritto di indossare l'hijab. Ma quando i funzionari di quei Paesi visitano l'Iran, non possono camminare liberamente per le strade. Anche le donne diplomatiche sono costrette a indossare un foulard e spesso anche il velo. Ci sconvolge che donne politiche e statiste obbediscano ai comandamenti patriarcali della Repubblica islamica in nome dell'Iran. La Repubblica Islamica dovrebbe scegliere un metodo per interagire con la comunità internazionale, e la comunità internazionale dovrebbe ritenere l’Iran responsabile dell’adozione della stessa politica.

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