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Come mai, quindi, resta da chiedersi, abbiamo perso questa capacità? Come è stato possibile? Abbiamo iniziato a pensarci tutti come giudici, a osservare l’altro non come un essere umano, come uno di noi, ma come altro da noi, come nemico e infine come colpevole di qualcosa da condannare. Lo osserviamo da lontano, lo giudichiamo, lo teniamo a distanza. A tal punto questa distanza è cresciuta che se uno muore davanti a noi rischiamo di non vederlo come un essere umano che muore, ma come un oggetto da osservare, da filmare e da rendere “social”.
E’ evidente che tutta la società non sia così: sicuramente in tanti sarebbero intervenuti e avrebbero tentato di rendere, anche solo un attimo di quella vita che finiva, meno dolorosa, meno tragica. Avrebbero offerto al ragazzo un ultimo saluto, avrebbero tentato di non lasciarlo andare via. La procura indaga e ipotizza una serie di reati. Anche noi abbiamo il dovere di indagare, di capire.
Episodi come questo sono uno specchio non tanto di ciò che siamo, ma dei rischi che corriamo. È importante che si blocchi il meccanismo dell’odio, dell’insulto, della minaccia perché questo ci allontana dai principi di solidarietà, di partecipazione, ci pone su un piedistallo dove tutto perde senso, anche la morte.
La tv del dolore è stata una “fabbrica di indifferenza”. Ha spostato l’asticella del voyeurismo sempre di più: per emozionarsi lo spettatore ha bisogno di scene sempre più cruente, di casi sempre più efferati, ha bisogno di spiare come se la vita fosse tutta un grande fratello. Le conseguenze si vedono. La violenza verbale fa parte di questa trasformazione del cittadino in spettatore e da spettatore in giudice spietato. Siamo diventati più crudeli e meno umani. Fino a quando l’orda non assale anche noi. Per quello, come nel caso di Riccione, sarebbe importante recuperare la capacità di identificarci nell’altro, di non sentirci superiori, ma umani come tutti gli altri.