Non pochi di noi sono stati colpiti dalla notizia di un giovane di 29 anni, che davanti a un altro ragazzo agonizzante dopo un incidente in moto, ha fatto la diretta facebook. Non ha chiamato i soccorsi, non si è avvicinato al giovane per confortarlo, ha attivato il cellulare e ha filmato la scena dicendo “qualcuno chiami i soccorsi” e “c’è molto sangue a terra, speriamo ce la faccia”. Il giovane di Riccione, esperto e critico d’arte, si è scusato. Ha detto che era convinto che i soccorsi fossero già stati chiamati e che non sa cosa gli sia accaduto. Gli vogliamo credere. Così come non vogliamo assolutamente cadere nella trappola del linciaggio: sul web c’è chi risponde al suo gesto augurandogli una morte altrettanto cruenta e usando quel linguaggio dell’odio che ormai conosciamo così bene: “vergogna”, “crepa”, “ti auguro di essere stritolato da un tir”. No, non vogliamo cadere in questa trappola. Ma voglia- mo capire. Capire che cosa è accaduto se un giovane, davanti alla morte, non si addolora ma filma alla ricerca di “like” sul suo post. Non serve infatti neanche minimizzare come hanno fatto alcuni, che relegano l’episodio alla casualità, alla insignificanza. È accaduto qualcosa, qualcosa di grave che ci interroga, che ci pone alcune domande. Siamo, infatti, oltre la morte in diretta a cui ci ha abituato la televisione di questi decenni. Il passaggio è ulteriore. A poco a poco abbiamo perso una qualità importante, fondamentale nel fare società: la capacità di identificarci con l’altro. L’altro è il diverso per cultura e identità, l’altro è anche chi sbaglia, chi commette un delitto. L’altro è anche chi muore davanti ai nostri occhi. La letteratura, l’arte, il cinema poi ci hanno insegnato ad entrare nella testa e nel cuore dell’altro, a indagarlo e a farlo nostro: anche colui che appare più lontano da noi porta in sé la grana umana che ci accomuna.

Come mai, quindi, resta da chiedersi, abbiamo perso questa capacità? Come è stato possibile? Abbiamo iniziato a pensarci tutti come giudici, a osservare l’altro non come un essere umano, come uno di noi, ma come altro da noi, come nemico e infine come colpevole di qualcosa da condannare. Lo osserviamo da lontano, lo giudichiamo, lo teniamo a distanza. A tal punto questa distanza è cresciuta che se uno muore davanti a noi rischiamo di non vederlo come un essere umano che muore, ma come un oggetto da osservare, da filmare e da rendere “social”.

E’ evidente che tutta la società non sia così: sicuramente in tanti sarebbero intervenuti e avrebbero tentato di rendere, anche solo un attimo di quella vita che finiva, meno dolorosa, meno tragica. Avrebbero offerto al ragazzo un ultimo saluto, avrebbero tentato di non lasciarlo andare via. La procura indaga e ipotizza una serie di reati. Anche noi abbiamo il dovere di indagare, di capire.

Episodi come questo sono uno specchio non tanto di ciò che siamo, ma dei rischi che corriamo. È importante che si blocchi il meccanismo dell’odio, dell’insulto, della minaccia perché questo ci allontana dai principi di solidarietà, di partecipazione, ci pone su un piedistallo dove tutto perde senso, anche la morte.

La tv del dolore è stata una “fabbrica di indifferenza”. Ha spostato l’asticella del voyeurismo sempre di più: per emozionarsi lo spettatore ha bisogno di scene sempre più cruente, di casi sempre più efferati, ha bisogno di spiare come se la vita fosse tutta un grande fratello. Le conseguenze si vedono. La violenza verbale fa parte di questa trasformazione del cittadino in spettatore e da spettatore in giudice spietato. Siamo diventati più crudeli e meno umani. Fino a quando l’orda non assale anche noi. Per quello, come nel caso di Riccione, sarebbe importante recuperare la capacità di identificarci nell’altro, di non sentirci superiori, ma umani come tutti gli altri.