La catena di smontaggio dell’opinione libera e consapevole comincia dalla sovraesposizione televisiva. Fiumi di scritture dottissime sono state spese per spiegare il potere della tv che, in sostanza, non è mai una semplice finestra sul mondo, ma è il mondo stesso rappresentato attraverso una realtà sociale stereotipata trasmessa secondo la visione di ciò che potremmo definire, con un termine antico “il potere” del momento.

Sociologi, studiosi di mass- media e delle scienze psicologiche hanno spiegato fin dagli anni ‘ 60 quale immensa capacità persuasiva abbia il mezzo televisivo, capace di giocare con le nostre paure, i nostri desideri e i “percorsi della persuasione” più elementari per somministrarci il punto di vista funzionale al potere dominante.

La scuola di Francoforte, e poi quella americana con Gerbner, Festinger, e poi lo stesso McLuhan- tanto fare citazioni- hanno raccontato cose definitive sulla capacità persuasiva della tv sul pubblico. La domanda è: ma vale ancora così tanto la tv dopo l’avvenuta espugnazione delle nostre vite da parte dello smartphone? Sembrerebbe proprio di sì. Volendo semplificare diremo che la tv crea la notizia, il personaggio, l’evento e i media digitali ne moltiplicano gli effetti elevandone il valore alla massima potenza attraverso il coinvolgimento di platee più larghe e diverse.

Per fare un esempio concreto pensiamo al fenomeno politico più rilevante degli ultimi anni in Italia, quello del Movimento Cinque Stelle, che si ritiene nutrito essenzialmente di comunicazione somministrata attraverso i social media. A ben vedere, però, il personaggio chiave della sua affermazione, Grillo, è un prodotto tipico della televisione italiana che ha trainato, con la sua presenza nell’immaginario sociale in quella zona indistinta tra satira corrosiva, battuta irriverente e affermazione politica ( sempre ritrattabile proprio in ragione della identità giullaresca del protagonista), l’intero movimento cresciuto attorno al mito casaleggiano della democrazia digitale.

Dunque la televisione the first, poi tutto il resto, fatto di facebook, instagram, follower e tweet a mitraglia. C’è, però, una parte della televisione a cui il cittadino deve poter chiedere di più. Si tratta del servizio pubblico, per capirci, quello che noi paghiamo con le nostre tasche di contribuenti senza merito civile, perché il balzello ci viene sottratto automaticamente con la fornitura della luce.

A che serva l’informazione erogata dal servizio pubblico lo spiegano libri importanti di giuristi e giornalisti eminenti ( tra i moltissimi Zaccaria e Zencovich): si tratta dello strumento più importante per la formazione di un’opinione pubblica responsabile e in grado di poter compiere le scelte che si addicono all’esercizio consapevole della cittadinanza. Per farlo occorre una completezza nei contenuti dell’informazione e, nella misura della ragionevolezza possibile, il confronto fra le diverse posizioni.

È questo che dice il famoso “contratto di servizio” che regola i rapporti tra l’azienda Rai e lo Stato. Che vuol dire? Vuol dire che quando si parla del Mes, il cosiddetto fondo salva Stati, non si può fare solo il“pastone” riportando le voci critiche degli oppositori o quelle di adesione dei sostenitori, senza spiegare prima di che cosa stiamo parlando.

Perché se no alla distorsione primaria, quella della carrellata dei commenti ad una informazione che non c’è, seguiranno le distorsioni successive fatte dai social che moltiplicheranno all’infinito l’errore e l’ignoranza. È un po' questo il mare in cui stiamo annegando in questo tempo bislacco dell’informazione e della politica. E la tv- quella che paghiamo per avere informazioni complete e pluraliste- fa la sua parte da leone. Con la collaborazione alacre di una politica distratta. O inconsapevole. O, peggio, attenta e consapevole e dunque complice.