Domenico Pulitanò, avvocato ed Emerito di Diritto penale all'Università di Milano Bicocca, il ministro Nordio ha deciso di non revocare il 41 bis ad Alfredo Cospito, il primo anarchico a finire al carcere duro. La fisionomia dello stesso istituto cambia alla luce di questa scelta?

Non vorrei entrare nel merito della vicenda, perché non la conosco in tutti i suoi particolari e perché non mi sembra questo il compito della scienza giuridica oggi. Pongo a lei la questione che pongo anche a me stesso quando parliamo del 41 bis: il problema non è l’etichetta, il problema sostanziale mi pare sia quello delle condizioni dell’esecuzione carceraria nella loro concretezza.

Il 41 bis ha un senso con riferimento a personaggi pericolosi che possono avere contatti con l’esterno, in continuazione con un impegno in una qualche sfera di attività malavitosa. Quando lo etichettiamo come carcere duro, cosa che si fa molto spesso, si inserisce in questo discorso anche un aspetto punitivo che l’istituto non dovrebbe avere.

Non so cosa succeda nella prassi, ma i giornali parlano, ad esempio, del divieto di tenere immagini o cose del genere: non c’entra niente con la sicurezza. Bisognerebbe verificare le condizioni di detenzione: le restrizioni devono avere il senso di un controllo per evitare contatti pericolosi, non quello di peggiorare la qualità del trattamento carcerario. Restrizioni nella durezza non finalizzate alla sicurezza non dovrebbero esserci. Credo che chi si interessa dello Stato di diritto dovrebbe concentrarsi su questo.

Ci sono varie testimonianze da parte dei legali di diversi detenuti al 41 bis di forme di restrizione che vanno oltre la ratio della norma, che diventa ulteriormente afflittiva.

Se vengono praticate restrizioni di questo genere chi sostiene la loro legittimità dovrebbe dimostrare come incide sulla finalità di sicurezza. Altrimenti non ha senso. Questa mi pare la sostanza: le restrizioni non devono avere un senso punitivo.

Secondo lei oggi è da ripensare il 41 bis?

È un istituto pensato per la sicurezza, se viene riempito di altri contenuti come le restrizioni della qualità del trattamento, che non hanno a che fare con la sicurezza, questo non ha senso. Ma è questione di effetto generale dell’ordinamento penitenziario.

Tale strumento è stato pensato per la criminalità organizzata e il terrorismo: è possibile considerare i movimenti anarchici come associazioni dotate di gerarchie e, quindi, potenzialmente anche figure di vertice in grado di impartire ordini ai propri sodali?

Il problema è di fatto. L’etichetta dell’associazione dice molto poco. Il problema fattuale è capire se Cospito è un condannato pericoloso in relazione ai suoi rapporti con un certo mondo. Se ha rapporti, ha influenza, è in grado di orientare e ci sono elementi per pensare che il suo comportamento incida su scelte criminali di altri, allora si potrebbe giustificare un trattamento più rigoroso. Ma deve pronunciarsi chi ha il potere di valutare e decidere sul trattamento.

Il caso Cospito fa emergere un’altra questione: il rifiuto dello stesso ad avere trattamenti sanitari nel caso in cui le sue condizioni di salute dovessero peggiorare. Cosa deve fare lo Stato in situazioni del genere? Ha il diritto di intervenire con la forza perché responsabile della tutela del detenuto o prevale il libero convincimento dello stesso?

È un problema non semplice. In passato si era posto il problema dell’alimentazione forzata: già 40 anni fa, all’epoca dei detenuti per terrorismo, vennero date risposte differenti. L’ordinamento penitenziario consente all’amministrazione di usare la forza in determinate situazioni e potrebbe pensarsi che questa lo sia. Di fronte alle norme successive e alla legge 219 sulle disposizioni di trattamento e sul diritto di rifiuto di cure, però, avrei dei dubbi che un intervento sul detenuto che si lascia morire sia legittimato dalla normativa penitenziaria. Però è un problema molto delicato, credo che si possano spendere argomenti sensati sia in un senso sia nell’altro.

Dovrebbe occuparsene la Corte costituzionale?

Se venisse chiamata in causa certamente. Ma chi potrebbe farlo? Sia chi sostiene l’esigenza di un intervento sia chi propende per l’esigenza di rispetto della libera volontà, anche se la scelta è di farsi morire di fame e di denutrizione, può invocare la Carta costituzionale. In situazioni analoghe ci sono state grosse tragedie: i terroristi irlandesi in carcere si sono lasciati morire e non c’è stato un intervento coattivo. Credo che la vicenda vada vista con grande distacco e che bisogna sempre valutare le conseguenze delle proprie scelte.