Tra le frasi più celebri del Calvino mainstream c’è senz’altro, oltre all’Inferno delle Città invisibili - in mezzo al quale bisognerebbe riconoscere ciò che non è inferno “e dargli spazio” - il monito a leggere i classici, quei libri che non finiscono mai di dire quel che hanno da dirci ( monito pubblicato in un noto articolo uscito nell’ 81 sull’Espresso). Il paradosso è che la seconda frase svuota di senso la prima: a forza di riconoscere e dare spazio, il valore utopistico ed eccezionale della ricerca si perde e resta solo la stanca ripetizione di un cliché. Quanto al poter continuare all’infinito a leggere i classici, pare affermazione che si autosmentisce, visto che ormai suona come ampiamente e ostentatamente inattuale.

I classici da tempo hanno smesso di essere un archetipo, da quando gli istituti di mediazione ( scuole e università) sono stati trasformati in agenzie di elargizione crediti, le riviste letterarie mandate al macero in favore dei blog, i blog rimpiazzati dai post di Facebook e dai tweet, i giudizi critici dalle emoticon e via così.

Mentre si aspetta la notifica della doppia spunta, difficile si abbia la concentrazione per tenere dietro al monologo di Molly nell’Ulisse o al montare dell’” Azione parallela” in Musil. Lo spazio di lettura si è ridotto, gli scaffali dei classici nelle librerie ( penso alla Feltrinelli di via Emanuele Orlando, una delle più frequentate di Roma) sono in uno spazio quasi inaccessibile e comunque non immediatamente visibile, nelle letture obbligatorie ( ad esempio estive) sono stati rimpiazzati dai post di Facebook, che tengono banco per giorni, impendendo a qualunque attività continuativa e minimamente impegnata di attrezzarsi e decollare. Oltretutto sembra invece obbligatorio, soprattutto per gli addetti ai lavori o specialisti della lettura, leggere i contemporanei, i candidati ai premi, gli ultimi arrivati, e i classici non solo non si leggono, ma pare sia scusabile, comprensibile, culturalmente ammissibile non averlo mai fatto: anzi, forse è pure un vantaggio, così nel tempo che si è risparmiato si è dato spazio alle corse col vento tra i capelli, ai viaggi, alla ragazza per cui palpitare.

Ma come mai la vita delle spiagge e delle birrette in compagnia sarebbe più vita di quella trascorsa a sudare le carte? Come resiste questo mito on the road quando lo scrittore per lo più siede a tavolino e legge e scrive ( se non altro legge quello che ha appena scritto)?

Complice l’assenza di grandi eventi ( pure il terremoto si è fatto piccolo stavolta, per non stravolgere il piano vacanze), quest’estate ha imperversato la polemica prodotta da una modesta inchiesta di Francesco Musolino sul Fatto: modesta per il numero e la caratura degli intervistati, che hanno trovato una minima, momentanea ribalta nell’occasione di dichiarare ai pochi lettori e ai molti “amici” che hanno viralizzato nei social come e perché abbiano lasciato a metà la Recherche ( so boring!), e così Musil ( 1660 pagine!?) per non parlare di Foster Wallace, con tutte quelle note e il carattere tipografico minuto da diventar ciechi. Che noia, che barba, che noia, e nel frattempo però non è che facciano i minatori che non hanno tempo e luce per leggere, no: scrivono, scrivono libri che chissà perché dovrebbero valere lo spazio il tempo e la fatica che invece non valgono per loro stessi i dieci- quindici capolavori imprescindibili della narrativa moderna.

Chi lo ha stabilito? Quella comunità critica e quel fissarsi del canone così aborriti dal postmoderno in poi, mentre la letteratura si fa gioco, evasione, intrattenimento ( finitissimo, con buona pace di Foster Wallace), consacrando l’effimero, il transeunte, il volatile.

Alzi la mano chi si ricorda di quali libri stessimo parlando a quest’ora lo scorso anno, o l’anno prima, o dieci anni fa. L’ultimo a fare dibattito è stato Umberto Eco, forse in tempi recenti Walter Siti, ma solo per le sconcezze. Se nelle scienze dure non conoscere i fondamenti è uno stigma gravissimo, in ambito letterario è blasone di freschezza, fondamento di ispirazione autentica, motivo di orgoglio vitalistico ( la vita la vivi o la leggi, parafrasando il tale).

Ci si prova a rilevare la contraddizione del voler essere letti senza aver compiuto lo sforzo minimo di formarsi, avvicinando le forme e i codici che si vogliono cambiare o sovvertire. Ma in effetti non si vuole più nemmeno questo, solo andare da Marzullo a raccontare di cosa parla il nostro dimenticabile ( e nell’arco di un bimestre dimenticato, in effetti) romanzetto e poi passare da Marzullo a Vanity Fair e magari a un grande quotidiano nazionale. Lì parlano di libri come fossero Un posto al sole: cosa succede a chi, chi fa cosa, come va a finire. La letteratura come gioco al ribasso non prevede più né fondamenti né fondamenta, i castelli di carta si reggono senza i pilastri e se crollano poco rileva: ce n’è subito un altro.

Così finisce che nel cuore della polemica, tra gli scandalizzati e i finti distratti ( ogni metapost di Facebook sul disinteresse di un dato topic si muta poi di fatto nell’ennesimo approfondimento a oltranza), l’unico a cogliere il senso del paradosso è lo scrittore che fa dell’umiltà sostanza del marketing e quei grandi classici mai letti dichiara di esserseli andati finalmente a comprare. Foss’anche solo per farci un selfie da viralizzare fino alla fine dell’estate.