I padri che divorano i propri figli. Il mito di Crono, raccontato da Esiodo nella Teogonia, si ripropone in versione Cinque stelle. I cattivi maestri, davanti alla crisi che colpisce il movimento, non hanno pietà ad azzannare le creature che avevano generato e in qualche modo creato anticipandone i temi, le modalità, il modo di fare. Michele Santoro, in un'intervista a Repubblica, dà della cuoca a Virginia Raggi citando Lenin, si avvicina in maniera sorprendente a Matteo Renzi e fa finta di niente su quanto e come i Cinque Stelle siano stati da lui sponsorizzati attraverso le sue trasmissioni. Stesso discorso vale per Marco Travaglio. Il Fatto quotidiano non guarda in faccia nessuno: se deve pubblicare una conversazione privata tra la sindaca, il suo portavoce e Luigi Di Maio non ci mette due secondi. È come quando Crono divora i figli per paura che gli portino via il potere: qui però l'atto di canniballismo è come se avvenisse quasi contro se stessi, contro la propria natura. Non si teme di mettere alla berlina il movimento, di fargli male, di farlo crollare. Ciò che conta è perseguire a tutti i costi i propri principi e non fare mai mea culpa.Ciò che colpisce leggendo i i maestri dei Cinque stelle è come oggi loro se ne lavino le mani. È come se non avessero avuto un ruolo culturale, politico. Anni e anni di populismo in tv, di cui Santoro è stato artefice - il migliore non c'è dubbio - hanno cambiato la testa degli italiani, hanno modificato il dna degli spettatori, inducendoli a una cultura fondata sul giustizialismo, la rabbia, l'antipolitica.Oggi fanno finta di nulla. Davanti agli errori commessi dai Cinque Stelle, li scaricano senza indugio, dimenticando il loro ruolo. Ma se a Roma tutto va male, non è certo colpa di un complotto, né della stampa cattiva, ma di una politica fondata sull'insulto, sul no fine a stesso. Travaglio non abbandona la nave. Non riesce a fare tanto. Resta lì, forse più simile al conte Ugolino di Dante Alighieri: dovendo sfamarsi per sopravvivere, mangia i propri figli, pur amandoli ancora. Travaglio li attacca, li bastona, li umilia, ma non riesca a staccarsi dalle sue creature. Sa che senza di loro sarebbe perso, ma non si chiede, neanche una volta, se anche lui ha qualche responsabilità. Se non è anche un po' colpa sua se, chi ha vinto le elezioni a Roma, non abbia un programma, un'idea, una scoria di proposta che possa consentire almeno di provarci a governare la città più difficile e tormentata d'Italia.Il direttore del Fatto dispensa invece condanne e assoluzioni, pretende le scuse di Raggi e dice chi si deve dimettere (Muraro!). Ma neanche una parola, un accenno per dire: forse ho sbagliato anche io, forse qualcosa ho sbagliato.No, né Travaglio, né Santoro chiedono scusa. Ma questi anni li hanno visti tra i protagonisti di una battaglia culturale tesa a minare il valore della politica in quanto tale. La Piazza ha preso il sopravvento, ma non come voce dei cittadini: spesso come urlo, rabbia, offesa. I Cinque stelle sono figli di quella cultura, trasformata in verità assoluta. Oggi ci si rende conto che non funziona, che lo psicodramma dei grillini va al di là degli errori che pure ci sono stati. C'è qualcosa di più profondo, inerente all'ideologia di fondo. Lo scontro tra i big grillini è la conseguenza di questo difetto strutturale. La decisione di Paola Taverna, che pubblica la mail che incastra Luigi Di Maio e svela come anche lui sapesse dell'inchiesta su Paola Muraro, ha il sapore non tanto della battaglia politica, anche cruenta, ma dell'odio, della vendetta, di una sfida giocata non sul filo delle idee, ma del rancore. Santoro, Travaglio e i tanti altri che in questi anni hanno soffiato sul fuoco non possono dire noi non c'entriamo. Basta avere un po' di memoria, ricordare gli anni e anni di antiberlusconismo, per dire non è così. Loro c'entrano. E forse qualche scusa la dovrebbero anche loro.